L’Europa sessanta anni dopo

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L’Unione europea che festeggia oggi i sessant’anni dai Trattati di Roma guarda con orgoglio al suo passato ma con preoccupazione al futuro. E’ come se in questo tornante storico tutti gli equivoci di una integrazione che non si è compiuta quando c’era ottimismo e la crescita sembrava inarrestabile, sommati alle incognite delle sfide di oggi, ne mettessero in discussione i presupposti e la stessa sopravvivenza. Nata presbite nel 1957, l’Unione si ritrova drammaticamente miope nella stessa sala degli Orazi e Curiazi, appena restaurata da cui prese le mosse un cammino comune indicato da uomini che avevano una lucida visione del futuro. Era presbite l’Europa di 60 anni fa, perché seppe vedere con anticipo l’orizzonte della globalizzazione e decise di mettere una pietra sopra i litigi e le guerre del passato e unire forze e risorse – che allora erano carbone, acciaio, atomo – in una prospettiva che presupponeva la progressiva fusione politica nel nome di principi democratici condivisi. Un’Europa lungimirante, insomma; che però oggi barcolla perché si sta rivelando incapace di far fronte ai problemi posti da quella stessa globalizzazione che perde colpi a causa della crisi economica e dei risorgenti nazionalismi. L’Unione di allora, quando si chiamava ancora Comunità, era in qualche modo al centro del mappamondo, saldamente ancorata alla sua sponda atlantica e protagonista della sfida, poi vinta, con l’Urss in nome della democrazia, della libertà e della società aperta. Nacque nel 1957 e crebbe con i successivi trattati di Maastricht (1992), Nizza (2001) e Lisbona (2007) su tre pilastri: economia, politica, diritti umani; ma solo il primo fu poi consolidato con la moneta unica, e neppure totalmente, visto che non è stata raggiunta la convergenza fiscale e restano enormi differenze fra gli Stati membri in tema di diritto al lavoro e di welfare. L’Unione politica, l’utopia del federalismo europeo, è di là da venire, e gli stessi diritti fondamentali non sono egualmente garantiti ai cittadini di diversi Stati, e spesso i richiami in materia lanciati da Bruxelles a diversi Stati sono rimasti lettera morta. Succede così che sessant’anni dopo la fondazione, un’Europa miope rischia di perdere il suo ruolo di protagonista della scena mondiale. La sua posizione centrale nello spazio geopolitico è ignorata da Donald Trump a occidente e insidiata da Vladimir Putin ad oriente. Entrambi preferiscono avere a che fare con i singoli governi, con le singole capitali, in un gioco diplomatico divisivo che richiama proprio la disputa fra Orazi e Curiazi narrata da Tito Livio. E’ passato il tempo in cui a Washington Henry Kissinger lamentava l’assenza di un interlocutore unico al di là dell’Atlantico (“Chi devo chiamare se voglio parlare con l’Europa?”, diceva); oggi Trump ignora l’Unione, manifesta amicizia con il solo Regno Unito (che sta levando gli ormeggi), e non riconosce alla Germania alcun ruolo di rappresentanza delle politiche continentali. Dall’altra parte, e quasi in maniera speculare, Putin fa altrettanto: sceglie in Europa i leader più disponibili ad assecondare la sua politica egemonica, che siano al potere o che tentino di conquistarlo, come Marine Le Pen e Matteo Salvini. Divide et impera, insomma, con l’Europa in mezzo, in evidente difficoltà. Come uscirne? La strada individuata e che oggi dovrebbe essere consacrata da una dichiarazione comune a 27 (Londra è già fuori) è quella di un’Europa che si muove a piccoli passi, secondo una modalità che non si vuole chiamare “a due velocità” ma che di fatto indica due ritmi diversi, uno più rapido e inclusivo, l’altro prudente e dubbioso. “Agiremo insieme, si legge nella bozza del documento, a ritmi e intensità differenti dove necessario, pur muovendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i Trattati e tenendo la porta aperta a coloro che vogliono unirsi successivamente”. Formula sfumata, eppure potrebbe non soddisfare, per motivi diversi, le esigenze di Grecia e Polonia. Oltre le reticenze del testo e le riserve di alcuni interlocutori, si possono individuare le aree di maggiore cooperazione: difesa, sicurezza, standard sociali, investimenti, sviluppo, immigrazione; insomma un’Europa in cui la dimensione politica comincia a delinearsi più nitidamente. Solo un piccolo passo, ma da compiere con decisione per rilanciare il progetto lungimirante di sessant’anni fa, nella consapevolezza che, come ha detto Sergio Mattarella alla vigilia del vertice, per l’Europa l’alternativa “è ancor oggi tra la frantumazione e l’irrilevanza di ciascuno e, invece, un processo di unificazione basato non sull’egemonia del più potente ma su uno sviluppo pacifico per mezzo di istituzioni federali e democratiche”. Un’Europa che torni ad inforcare gli occhiali per guardare lontano.
edito dal Quotidiano del Sud