Libriamo la Città: l’universo delle donne secondo Parrella

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Parlare delle donne in tutte le sue declinazioni e sfumature, della loro capacità di guardare il reale e di affrontarlo con l’arma della scrittura, questo il delicato filo rosso del  primo incontro della rassegna è stata inaugurata la prima edizione di “Libri – Amo la città”, la rassegna dedicata alla memoria di Tonino Petrozziello,  il libraio geniale e disponibile, sempre attento a soddisfare le esigenze intellettuali di chiunque entrasse nel piccolo mondo fatato che era la sua libreria.  La prima ospite è stata Valeria Parrella, scrittrice e giornalista napoletana, che ha presentato il suo ultimo libro “Quel tipo di donna” un romanzo ispirato ad una storia vera che affronta i temi del viaggio, dell’amicizia e soprattutto della solidarietà tra donne. Ad intervistare la scrittrice, la giornalista Floriana Guerriero, del Quotidiano del Sud. Non è un caso che questo primo incontro letterario sia coinciso con la giornata mondiale contro la violenza nei confronti delle donne. Il vulnus della società attuale è proprio questo pensiero maschile che non tollera l’emancipazione femminile, il sottrarsi, da parte delle donne, da ogni imposizione maschile, il loro prendere coscienza, in maniera sempre più radicale, della propria forza e della propria autorità.  Come ha ribadito la stessa scrittrice: «oggi non abbiamo tanto bisogno di una educazione sessuale, quanto di una educazione sentimentale, che deve essere impartita, ai figli maschi, fin da piccoli, nel rispetto della diversità e della dignità delle femminucce. E’ un processo lungo, dobbiamo educare i maschi a saper accettare un “no”. Ma per questo, c’è bisogno di una legislazione molto più snella, veloce, che riesca a contemperare rapidità e giustizia nei confronti delle donne. Dai recenti casi di cronaca, vediamo come molte delle donne che denunciano, non vengono prese sul serio o messe in condizione di salvaguardare la propria incolumità fisica.». Molti di quelli che tristemente chiamiamo “femminicidi”, infatti, non sono altro che cronache di morte annunciate. Del resto, molteplici studi sono stati fatti proprio sulla differenza di genere nell’educazione dei più piccoli. Si è scoperto che, fino a qualche decennio fa, le ragazze erano portate a scegliere studi umanistici, proprio per l’educazione ricevuta in famiglia e a scuola. Solo recentemente, si è avuto un notevole afflusso di iscrizioni anche in facoltà scientifiche, come ingegneria o chimica e fisica, fino a poco tempo fa, appannaggio quasi esclusivamente del sesso maschile. Ma chi siano le donne che popolano il romanzo, è chiaro sin dall’incipit: «No: noi non siamo quel tipo di donne lì, o quel tipo di uomini, dico quelli che stendono una tovaglietta sotto il piatto per mangiare da soli».  Ci troviamo di fronte a donne che ingaggiano una dura lotta con la vita e che attraversano il limbo della sofferenza e del dolore, sostenute da una “sorellanza” che cementa le esperienze ed esalta, allo stesso tempo, le differenze. La libertà sembra essere la linfa segreta che anima queste donne, non irrigidite negli stereotipi che la società borghese impone, e che hanno la chiara consapevolezza che la loro libertà è un retaggio conquistato a caro prezzo dalle loro nonne. La storia muove dall’esigenza di dare una risposta alle solitudini di quattro amiche. Come leggiamo nel romanzo: «Quello che voglio dire è che noi eravamo quattro amiche, alla soglia di quel viaggio, ma in realtà con noi c’erano moltissime altre donne: un’intera comunità che principiava dalle nostre madri e dalle madri delle nostre madri.». Il viaggio in Turchia è, forse, un viaggio di scoperta, alla ricerca del proprio io più nascosto o meglio, un viaggio di piena consapevolezza. In una Instanbul molto diversa da quella attuale, le quattro amiche ritrovano lo specchio del loro essere più profondo. Così leggiamo nel libro: «E adesso mi sentivo felice, orgogliosa, di essere in una fila di tre posti più uno assieme a tre donne di cui mi fidavo perché ne avevano passate tante. Ecco: sapere che un altro ne ha passate tante e riesce comunque a salire su un aereo, o vestirsi e truccarsi, o andarsi a sedere a un tavolino per un aperitivo, è quello che mi fa compagnia nei momenti terribili, che mi fa riconoscere le persone come mie simili. Ero seduta tra simili e vivevo questa condizione con emozione profondissima, senza dichiararla, ovviamente […]».

Del resto, la libertà di riscoprirsi e di reinventarsi nella propria unicità sembra essere la sottile trama nascosta del libro. In un’intervista che ha aperto squarci inediti sulla vita della scrittrice, raccontando anche di una Napoli sempre viva e capace di ispirare nuove storie e nuovi romanzi, in una geopolitica della scrittura affascinante quanto misteriosa, emerge un ritratto di donna in cui molte potranno facilmente riconoscersi. Inevitabile, in questo contesto, sempre il richiamo a quel sostrato educativo – culturale che deve caratterizzare i primi anni di vita dei bambini. «L’educazione sentimentale è l’educazione al rispetto, alla complessità della persona. Gli anni settanta sono stati quelli che hanno visto la nascita del servizio sanitario locale, dei consultori, presidio indispensabile per una corretta informazione. Chiudere i consultori, come è avvenuto nella mia cittadina, non mi sembra una scelta saggia».  Del resto, ogni vera rivoluzione nasce proprio dall’uscire fuori, dal sottrarsi, sia agli stereotipi culturali che vorrebbero imprigionarci, sia dalle prigioni che ci autocostruiamo. Quindi, una educazione sentimentale che deve partire dalla famiglia, dalla scuola, per formare persone in grado di riconoscere, nell’altro sesso, pari dignità ma anche la capacità di guardare il mondo da una prospettiva diversa. Perché non bisogna precipitare nei vecchi baratri che spesso hanno sepolto intelligenze e cuori, come scriveva la poetessa Amelia Rosselli:  “Perché non spero mai ritrovare / me stessa, eccomi di ritorno fra delle mura. Le mura pesanti / e ignare rinchiudono il prigioniero» .

Vera Mocella