L’immoralità di chi lucra sulla “discordia”

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Nel viaggio dello scorso gennaio in Cile, ai giornalisti in volo con Papa Francesco fu consegnata la fotografia scattata nel 1945 a Nagasaki del bambino che porta sulle spalle il fratellino morto in attesa della cremazione. Di suo pugno, Bergoglio scrisse la didascalia: “Il frutto della guerra”. In quella occasione il Papa, che l’anno precedente ad Assisi aveva parlato di “una terza guerra mondiale che si sta combattendo a pezzi”, aveva confessato la sua paura di un conflitto mondiale nucleare: “Siamo davvero al limite”. Il tema della pace che pur nella diversa sensibilità dei successori di Pietro costituisce il punto irriducibile della millenaria missione della chiesa di Cristo sulla terra, è stato declinato con rinnovata coerenza nel nitido messaggio lanciato da Pietrelcina e San Giovanni Rotondo dal Papa pellegrino nei luoghi di Padre Pio.

Non appellandosi ai consessi internazionali, non confidando nei rapporti tra gli Stati, ma capovolgendo la stessa morfologia dei luoghi dove dovrebbe essere costruita la pace “certa, duratura e libera”, Papa Francesco ha interrogato direttamente ogni singola persona. “Un Paese che litiga non cresce, non (si) costruisce, mette paura”, è quello con la lettera maiuscola a cui leghiamo i comuni destini ma anche il piccolo borgo in cui nacque “la carezza vivente di Dio” e tutti i luoghi in cui pulsa e si organizza la comunità. La coerenza pastorale, e teologica, di Bergoglio ha rilanciato cioè la necessità che alla guerra in corso “a pezzi” si contrapponga “una pace fatta di piccoli pezzi”: se non cominciamo dal nostro (piccolo) mondo a superare le incomprensioni e i litigi, perchè il mondo e il paese con le maiuscole dovrebbero andar meglio? C’è chi ha voluto cogliere lo sguardo di Bergoglio volgersi in particolare verso le autorità politiche del territorio che erano ad ascoltarlo a Piana Romana mentre scandiva la sollecitazione a costruire piuttosto che ad aspirare alla concordia. Anche senza questa notazione, è evidente la responsabilità di primo piano che Papa Francesco attribuisce alla politica come strumento di pacificazione capace di compensare e portare a sintesi le istanze concorrenziali e dunque conflittuali presenti nella società. C’è oggi una qualche visibile percezione della politica appena informata a quella spiritualità che dovrebbe almeno tendere ad essere forma alta di misericordia, come riteneva Papa Montini? In attesa dei frutti sperati da Bergoglio, la realtà ci dice tutt’altro. Anzi, di peggio come dimostrano le ampie impronte digitali lasciate sulla recente campagna elettorale. Complice una legge che prefigurava lo stallo, non essendoci dunque possibilità di vittoria che consentisse ad alcuno la possibilità di governo autonomo, la competizione si è giocata sulla conquista della utilità marginale. Una caccia che si è rivelata particolarmente copiosa per quei partiti e movimenti che hanno caratterizzato la propria offerta politica lucrando di fatto sulle “discordie”. Con resistibili promesse: rispedire a casa in pochi mesi qualche milione di immigrati, garantire un reddito a chi non ce l’ha, portare la tassazione a livelli che neanche nella Repubblica delle Banane. E’ persino trascurabile la circostanza che a sostegno di questi intendimenti non si sia intravisto un solo euro certo. Inquieta invece il pacchetto di ricette avvelenate destinate a produrre nuove e forse calamitose divisioni nella vita e nel futuro più immediato delle comunità. Non è soltanto il massimo della irresponsabilità, ma l’espressione più alta della immoralità che la politica senza spirito raggiunge ai danni anche di se stessa.

di Norberto Vitale edito dal Quotidiano del Sud