Il catalogo delle crisi di governo compilato negli oltre sette decenni della nostra repubblica parlamentare è talmente variegato che non ci azzarderemmo a prevedere il punto di caduta di quella che al momento è solo una “non crisi” in attesa di più esatta definizione. Il governo è ancora in carica sotto l’attenta vigilanza del Capo dello Stato, il presidente Conte ha assunto l’interim dei due dicasteri liberati da Italia viva, il cui leader Matteo Renzi ha peraltro detto che non intende ostacolare in parlamento l’iter di due provvedimenti essenziali come il progetto italiano per l’uso dei fiondi europei anti-pandemia e l’ulteriore deficit per 20-25 miliardi destinato al “ristoro” delle categorie danneggiate dalla chiusura degli esercizi commerciali e delle altre attività imprenditoriali. Dunque, dov’è la crisi?, ci si potrebbe chiedere con qualche malizia. Da quel che si capisce cercando di indovinare le mosse di palazzo Chigi, la situazione dovrebbe chiarirsi all’inizio della prossima settimana, quando Conte andrà in parlamento e chiederà a tutti, in primis ai renziani, di assumersi le proprie responsabilità. Otterrà un chiarimento definitivo, che a quel punto potrebbe essere solo un voto di fiducia? Certamente un chiaro respingimento da parte di Iv (o quel che ne resta) delle proposte del premier avrebbe il pregio di ricondurre la disputa nell’ambito ben noto alle cronache della prima, della seconda e della terza repubblica. Ma andrà proprio così, e soprattutto sarebbe questa la soluzione migliore per uscire dal pantano in cui siamo precipitati? Le cronache della XVIII legislatura suggeriscono prudenza, soprattutto quanto ai tempi. Il passaggio dal Conte uno e al Conte due, nell’estate di due anni fa durò due settimane abbondanti, ma allora non c’era l’assillo delle risposte da mandare a Bruxelles né quello dei conti in rosso del bilancio. E non c’era da accontentare un manipolo di senatore e deputati ricchi di ambizioni e poveri di idee, ai quali interessa solo di sopravvivere almeno fino all’elezione del successore di Mattarella. Vuol dire che se non si fanno le cose in fretta e bene rischiamo di perdere l’appuntamento con la prima tranche dei fondi europei, e sarebbe un disastro per l’economia e per la nostra credibilità all’estero, già compromessa. Per evitare il danno e la brutta figura c’è chi ha pensato ad un’uscita veramente azzardata della crisi-non crisi aperta da Renzi: un veloce passaggio parlamentare (soprattutto al Senato) concluso con la presa d’atto che la maggioranza del Conte due è cambiata ma il saldo no: tanti renziani escono, tanti “costruttori” o “muratori” entrano. Il primo termine è un plagio dal discorso presidenziale di fine anno, che sarebbe scorretto (ma è già stato fatto, purtroppo) strumentalizzare a copertura di una manovra di corto respiro; il secondo, “muratori” per l’appunto, è sfuggito in un’intervista a “Repubblica” al senatore Nencini, ed ha un che di inquietante. Come che sia, di una crisi formale non si potrà fare a meno, e una crisi fatalmente si apre con le dimissioni del Presidente del Consiglio determinate o da un voto di sfiducia di una delle due Camere o dalla presa d’atto del venir meno dell’appoggio di una componente della maggioranza. Nel primo caso sarebbe difficile per Conte ottenere un reincarico, nel secondo saremmo messi di fronte ad una realtà davvero insolita: un leader politico inizialmente improvvisato, poi diventato esperto di manovre parlamentari, che in soli tre anni forma tre governi con tre diverse maggioranze senza mai lasciare palazzo Chigi. La differenza fra il Conte due e il tre è che allora protagonista fu un partito di grandi tradizioni democratiche, anche se un po’ ammaccato, oggi si avverte l’eco di un inno al trasformismo. Ma è presto per dire che i giochi sono fatti.
di Guido Bossa