L’omicidio di Moro e la Repubblica

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In un paese malato di presente che non fa i conti con il ristoro della memoria e con la prospettiva del futuro ci sono giornate che segnano uno spartiacque. Il 9 maggio di 41 anni fa l’omicidio di Aldo Moro. Con la sua morte si chiude la Repubblica dei partiti che restano insieme a lui nel bagagliaio della Renault rossa.  Oggi è il tempo dei leader senza partito che si rivolgono direttamente al popolo e parlano non attraverso dibattiti o interviste ma solo postando le loro parole sui social. L’uso del contraddittorio non è ammesso. Un altro stile rispetto a quello pacato e mite di personalità come Aldo Moro. La sua tragica fine chiude il disegno di rendere l’Italia un paese normale con forze politiche che si riconoscevano reciprocamente e che avrebbero dato finalmente vita ad una democrazia dell’alternanza. Un disegno che avrebbe portato se realizzato Aldo Moro a succedere a Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica. Un anno, il ’78, denso di avvenimenti. Le dimissioni proprio di Leone travolto da uno scandalo dal quale uscirà totalmente estraneo, l’arrivo al Quirinale del Presidente “partigiano” Sandro Pertini che con il suo stile cambierà il modo di fare politica dalle Istituzioni. I “tre Papi”. Dopo la morte di Montini, Papa Luciani e poi il cardinale polacco Woytila che sgretolerà dal Vaticano il blocco sovietico. Le generazioni di oggi leggono questi avvenimenti come pagine di storia e ancora ci si interroga su quello che non è stato fatto per salvare la vita ad Aldo Moro. Cinquantacinque giorni prigioniero in un covo delle Brigate Rosse. Le lettere durissime ai ministri e ai dirigenti del suo partito e quelle più intime ad amici, collaboratori e familiari. Moro era stato prima l’architetto del centrosinistra e poi negli anni settanta dell’apertura al Partito Comunista, all’altra “Chiesa” politica italiana. L’incontro tra gli avversari della guerra fredda che doveva portare ad un’altra idea della democrazia. Un sogno spezzato e mai più ripreso. Abbiamo attraversato dopo la sua morte gli anni della decadenza politica dove il futuro non è stato più immaginato. Anni di presente, di occhi fissi sui sondaggi, sull’inseguire i desideri dell’opinione pubblica senza ipotizzare soluzioni di lungo periodo. La crisi parte da allora e da quel tunnel ancora non siamo usciti. Ogni elezione, non solo quella politica, viene vissuta come un giudizio sull’azione del singolo leader e il paese assiste da spettatore mai da protagonista. Abbiamo sostituito la lotta politica con un tifo da stadio, da curva. La politica non è più pensiero condiviso ma solitario. Ha scritto Eugenio Scalfari che “la politica è l’arte di governare, la cultura è la principale caratteristica   della nostra specie. Senza cultura non c’è politica ma solo un accaparramento   del potere e delle tecniche di accumulo o dispersione delle ricchezza e della povertà”.  Oggi chi fa politica lo fa principalmente per acquisire quote di potere al contrario Moro scrive fin da giovanissimo che la politica lascerà sempre insoddisfatti mai appagati, non è uno scrigno che custodisce la felicità.  Il suo obiettivo politico non è la conquista del potere ma quello di allargare la basi democratiche dello Stato ricercando un consenso non imponendolo. La mitezza del suo carattere e la sua profonda cultura riemergono dagli ultimi attimi conosciuti della sua vita. La sera del 15 marzo alla vigilia del sequestro, Giovanni, il figlio dello statista, ha 20 anni, torna tardi a casa la sera e trova suo padre seduto in poltrona a leggere un libro. Si saluteranno per l’ultima volta, come racconta Miguel Gotor nel “Memoriale della Repubblica”. Quella sera Aldo Moro sta leggendo l’opera del teologo protestante Jürgen Moltmann, “Il Dio crocifisso”.

di Andrea Covotta