L’unità nazionale alla prova

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La precipitosa ritirata degli Stati Uniti dall’Afghanistan non ha solo messo in difficoltà i dispositivi militari e le diplomazie dei paesi Nato presenti sul territorio, ma sta provocando ripercussioni anche negli assetti interni di alcuni di essi, a partire da quelli più esposti a fianco dell’alleato a stelle e strisce. In Gran Bretagna un vento di contestazione ha investito il premier Johnson e il responsabile del Foreign Office Dominic Raab giudicati troppo corrivi con la confusa e velleitaria gestione del disimpegno, frutto più di una resa che di una pace negoziata, ma è improbabile, a meno di sviluppi imprevedibili, che la solidità del sistema istituzionale venga messa in discussione da una crisi che sollecita piuttosto una reazione di reciproco sostegno se non di solidarietà. In Italia la catastrofe afghana ha prodotto una sorta di riflesso pavloviano in virtù del quale buona parte del dibattito pubblico si è incentrata sul tema dell’ipotetico (per molti già certo) afflusso di profughi in fuga dal regime dei talebani, con tutte le conseguenze che ciò comporterà. Ora, è altamente probabile che i profughi ci saranno, e del resto il diritto di asilo per chi fugge da un regime totalitario e violento come quello che si sta instaurando in Afghanistan è indiscutibile, mentre il nostro governo ha calcolato in almeno 2.500 i collaboratori locali che devono essere protetti e le rotte terrestri verso l’Europa sono già tracciate; ma la questione umanitaria sollevata dal problema dei profughi è solo una parte del dramma che si è aperto a Ferragosto in un’area del globo che è di per sé instabile e soggetta a tensioni.

L’ennesima crisi afgana si iscrive in un contesto geopolitico in rapida evoluzione, nel quale si sta progressivamente riducendo la presenza americana, da tempo in ripiegamento dal Medio oriente, mentre cresce l’influenza di attori internazionali presenti come la Turchia e l’Iran, o in cerca di un nuovo o rinnovato protagonismo come la Cina e la Russia. Significativa la circostanza per la quale il governo russo, erede del potere sovietico costretto 30 anni fa a lasciare il paese dopo dieci anni di occupazione, sia oggi tra gli interlocutori privilegiati dei nuovi padroni di Kabul. E’ presto per immaginare quale possa essere l’assetto definitivo dell’intera area dell’Asia centrale, ma comunque l’Europa non può perdere l’occasione di inserirsi come protagonista nel grande gioco che si è aperto fra Kabul, Islamabad, Riyad, Teheran e Ankara, con Mosca e Pechino pronte a tutelare i rispettivi interessi. A questo appuntamento l’Europa si avvicina purtroppo in un momento di debolezza: fra un mese sarà priva della leadership di Angela Merkel, mentre anche Macron è alle prese con una rielezione in forse, e sul piano strettamente militare la Nato non ha fatto una figura smagliante in Afghanistan. Mario Draghi ha individuato nel G20 la sede di dialogo e concertazione più utile per stendere un cordone di sicurezza attorno al nascente regime dei talebani, evitare che diventi un nuovo incubatoio di terrorismo internazionale, tutelare quel minimo di garanzie dei diritti fondamentali e di emancipazione delle donne che venti anni di presenza occidentale nel paese avevano assicurato. Sotto la presidenza di turno italiana un vertice straordinario dei capi di stato e di governo delle venti maggiori potenze economiche mondiali si potrebbe tenere a breve con all’ordine del giorno temi quali la stabilità dell’area, la sicurezza, i diritti umani, i profughi. Sta ora alla politica italiana, nel dibattito parlamentare in agenda la prossima settimana, mostrarsi all’altezza della sfida che le circostanze ci hanno lanciato.

di Guido Bossa