Noi: la razza dei cinici

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Siamo diventati la razza dei cinici, la genìa degli impietosi, dei grossolani e dei miopi; pensiamo solo a noi stessi. Stiamo annientando le ultime resistenze d’amore nell’epurazione di ogni forma di solidarietà. Espropriamo l’umano dei suoi prati fioriti, delle tinte di gentilezza che da sempre l’hanno impresso e arricchito. La verità è che ci sentiamo tutti stremati, tutti più collerici, tutti più cattivi, con decine di sogni congedati, con decine di attese profanate, con decine di propositi stroncati. E’il deficit della coscienza, l’emirato del vuoto, la tetraplegìa della civiltà. I princìpi hanno perso il loro potere, manodopera servile di politici senza idee, senza ragione e senza cuore. E noi? Irrancidiamo in uno stato di minorità di cui siamo colpevoli. Abbiamo imparato a delegare, abbiamo incerottato la bocca alle scelte, confusi, slegati, senza guizzi di attaccamento per niente e per nessuno. E’ il varo del cinismo unificato, l’egoismo che impenna le ali e assume vecchi e nuovi connotati. I paesi si spopolano in un senso di abbandono e indifferenza. I bar diventano luoghi dove far fermentare insieme rimpianti e solitudini, un’officina del sorriso e del disagio dove il disagio si stempera con una partita a carte o si acutizza tra una birra e un Biancosarti.

Siamo diventati una pluralità di corpi separati l’uno dall’altro. Una terribile epidemia di scontento, la peronospora delle frustrazioni, distrugge quasi per intero progetti e volontà. Lo sterminato esercito dei delusi combatte la sua guerra con armi moderne: i social assurgono a campi di battaglia con truppe variamente schierate, parole come mitragliatrici, offese come cannoni a lunga gittata. Le operazioni militari vengono condotte a colpi di post e di tweet. E anche le lotte politiche si svolgono davanti allo schermo di un computer. Non disponiamo di sufficienti capitali di coraggio per sbaragliare la pigrizia, per sconfessare il torpore che ci investe, per restituire l’impronta del sapere e delle competenze là dove si decide, là dove i pochi agiscono per tutti. Abbiamo scarsa propensione a farci carico dei problemi della collettività. Lo spirito comunitario rischia di finire smembrato, avvertito dannoso al pari di un investimento improduttivo. Viviamo davvero un “umanesimo retrogrado”, una democrazia fitta di diseguaglianze che cospira a rovesciare i buoni sentimenti sostituendoli con motivi di utilità e interesse.

Forse per questo ci sentiamo stanchi e insoddisfatti, curvi sul telaio della rassegnazione, nell’ingranaggio cigolante e poderoso di un capitalismo che non ci ha reso più felici. La verità è che la dinastia del pensiero consapevole è al declino. La verità è che vacilliamo senza saperci ribellare. La verità è che non capiamo quanto perniciosa sia la rinuncia che ci inabilita alla crescita, al cambiamento, al dinamismo dell’esistere. Inacetiamo come vino in un frastuono scemologico di cui siamo attori e spettatori incidentali. Abbiamo smesso di appartenerci, fatti alieni a noi stessi, ancor prima che al mondo.

Monia Gaita