Norberto Bobbio e il potere invisibile nelle democrazie

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Di Vincenzo Fiore

Esiste uno scarto ineliminabile, insanabile e forse più banalmente fisiologico fra ogni modello «ideale» e il suo tentativo di applicazione «reale». Lo sapeva bene Platone, spesso accusato ingiustamente di essere il padre dell’utopia essendo il teorico della kallipolis (la città bella, la città perfetta), il quale però avvertiva e descriveva con chiarezza inarrivabile, ai suoi allievi dell’Accademia, le fasi della degenerazione delle varie forme politiche esistenti. Il regno dell’umano è un mondo imperfetto, complesso, dove i «paradigmi del cielo» si scontrano con le esigenze, in continua trasformazione, della Realpolitik. La mancata accettazione di questo scarto fra teoria e prassi politica è la strada che porta alla tirannide o, per dirla in termini moderni, alla dittatura o al totalitarismo.

Verso la metà degli anni ’80, quando il comunismo già assomigliava a un malato terminale a cui occorreva soltanto staccare la spina e il capitalismo si mostrava come la nuova religione per il secolo che si apprestava ad arrivare, chi ha affrontato queste tematiche spogliato da qualsiasi abito ideologico e con la lucidità dell’osservatore critico è stato Norberto Bobbio. Il filosofo e giurista torinese nel suo libro Il futuro della democrazia (Einaudi, 1984) analizzò le conquiste, le imperfezioni e, soprattutto, le contraddizioni del sistema democratico. Un sistema che per sua natura è manchevole, vizioso, talvolta approssimativo ma, nonostante ciò, probabilmente resta il modello migliore per la convivenza degli individui. Considerazioni che non possono non rimandare alla battuta amara, ma allo stesso tempo veritiera di Winston Churchill quando affermava: «È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora».

A vent’anni dalla morte di Bobbio, scomparso il 9 gennaio 2004 all’età di 94 anni nella sua amata Torino, quelle che egli indicava con acume le promesse non mantenute della democrazia, restano ancora tali. Considerato da molti «al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo italiano della politica nella seconda metà del Novecento», sottolineava come il progetto egualitario della «società degli individui» si era trasformato invece nella «rivincita degli interessi» organizzati dei vari corporativismi. Il Parlamento – poi vissuto da egli stesso con la nomina di Senatore a vita dal 1984, per volontà del Presidente Sandro Pertini – è divenuto il luogo delle istanze particolari, anziché il luogo della rappresentanza della volontà popolare.

La «persistenza delle oligarchie» è il limite più grande delle democrazie moderne, che sperimentano ogni giorno l’impossibilità di attuare una democrazia diretta. La politica è sempre un relegare e non sempre il politico, anzi quasi mai, è espressione di quell’alto profilo che Max Weber descriveva come l’ideal-tipo dell’amministratore del nuovo e complesso apparato statale. Al contrario, il politico negli anni ha assunto il ruolo di un figurante mosso da un diverso e indefinito «potere invisibile», che tutto gestisce e tutto controlla: «Uno dei luoghi comuni di tutti i vecchi e nuovi discorsi sulla democrazia consiste nell’affermare che essa è il governo del potere visibile: il governo del potere pubblico in pubblico. La pubblicità è la regola, il segreto l’eccezione, e a ogni modo è un’eccezione che non deve far venire meno la regola, giacché la segretezza è giustificata, non diversamente da tutte le misure eccezionali, soltanto se è limitata nel tempo». Inoltre, Bobbio rimarcava il fatto che il processo di democratizzazione non avesse investito tutti i campi delle sfere lavorativo-sociali, dove l’impianto era rimasto invariabilmente gerarchico. Il filosofo sembrava chiedersi quale fosse il senso di parlare di stato democratico, ove la vita quotidiana dei semplici cittadini fosse immersa in apparati e sistemi non democratici. Un tema questo, che già aveva in qualche modo trattato nel saggio del 1976 Quale socialismo?, testo in cui auspicava che le conquiste borghesi si estendessero anche alla classe dei proletari, scoraggiando così le vie rivoluzionarie ed estremiste a favore di un riformismo etico, sociale e pensato.

Uno dei temi ricorrenti delle sue opere è stato quello dell’educazione del cittadino, Bobbio riteneva basilare in uno stato democratico un’alta e consapevole partecipazione al voto e un’influente opinione pubblica pronta a esprimersi e a dialogare sui temi fondamentali. Fa riflettere che tale esigenza fosse urgente per il filosofo torinese, nonostante ad esempio alle Elezioni europee del 1984 l’affluenza fosse sopra l’84%, soglia che a oggi appare un miraggio.

Formatosi al Liceo classico Massimo d’Azeglio, dove conobbe Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, Bobbio si laureò poi in Giurisprudenza con il massimo dei voti con una tesi dal titolo Filosofia e dogmatica del Diritto, avendo maestri del calibro di Luigi Einaudi e Gioele Solari. Insieme a Ludovico Geymonat, si avvicinò prima all’esistenzialismo di Karl Jaspers e successivamente alla fenomenologia di Edmund Husserl. Dopo la seconda laurea in filosofia, ottenne la sua prima cattedra universitaria all’Università di Camerino e nel 1934 pubblicò il suo primo libro: L’indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica.

Nel corso del Ventennio, più volte Bobbio fu un osservato speciale del regime fascista che monitorava le sue attività e le sue pubblicazioni. Nel 1942 egli decise di aderire al Partito d’Azione clandestino fino a poi manifestare apertamente il suo anti-fascismo. Negli anni della Repubblica non mancò mai di mettere nero su bianco sulle storture della prassi democratica e su una classe dirigente arroccata sui propri interessi: «Questa nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato, sempre più esorbitante […] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno a un’oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto con la corruzione […] Vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a poco a poco […] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili degenerazioni».

Per tutta la sua esistenza egli si tenne lontano dalla figura di «intellettuale profeta», divincolandosi da coloro che esprimevano un’opinione su qualsiasi cosa e repellendo le facili risposte ai problemi complessi. Bobbio fu un apologeta del dubbio, riconoscendo che a volte è più difficile porre nuove domande che trovare risposte ai problemi già noti. Nonostante qualche critico spagnolo lo avesse ribattezzato per questo motivo come il pensatore «de la indecisión», la saggezza e il suo approccio critico alle cose restano un faro in un mondo inquinato da tuttologia e pressappochismo: «Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un’altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me».