Pd, dieci anni tra sinistra e Renzi 

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Dieci anni fa, il 14 ottobre del 2007, nasceva il Partito democratico. Per molti rappresentò una grande speranza. Mettere insieme le diverse culture (marxista, cattolica, liberale, socialista) fu impresa ardua. La politica, prima di allora, sembrava morta. L’imperversare di Tangentopoli aveva alcuni anni prima cancellato la geografia dei partiti nella prima Repubblica. Due anni prima che nascesse il Pd, Romano Prodi, nel 1995, aveva dato vita all’Ulivo. Fu quello il primo tentativo di riconciliazione politica di un fronte alternativo alle destre e al berlusconismo. L’idea prodiana dette linfa al Pd. Ne fu precursore. Bisognava ricostruire il centrosinistra. Fare una coalizione alternativa al centrodestra. Dare vita ad un progetto complessivo che rendesse la democrazia competitiva nell’alternanza. Almeno questo era l’obiettivo dei fondatori. Ma la fusione a freddo non ebbe, all’inizio, grande successo. Gli egoismi delle precedenti appartenenze, segnavano spesso la differenza.

Il progetto lentamente si andava snaturando anche per l’americanizzazione del suo primo segretario. E così arrivò la prima cocente delusione: la sconfitta elettorale, nell’aprile 2008, e la vittoria di Berlusconi. Erano i tempi del pullman verde in giro per l’Italia, con il motto “si può fare”. Walter Veltroni, eletto dall’Assemblea costituente del Pd, dopo aver creato entusiasmo e simpatia per il nuovo soggetto politico, abbandonò il timone per una serie di errori che non gli furono perdonati: l’autosufficienza, la vocazione maggioritaria, la conduzione della campagna elettorale in Sardegna e la clamorosa sconfitta del Pd. Veltroni gettò la spugna. Non andrà meglio negli anni successivi nei quali la lotta per il primato della leadership si è consumata tra roventi polemiche. Franceschini, Bersani, Epifani si dimenano nel costruire l’identità di un partito che ancora non diventava adulto. Nel quale il dibattito all’interno tra centro e sinistra non riesce, ancora oggi, a trovare sintesi.

Il partito sembra ritrovare nuova linfa nel dicembre del 2013 quando sulla scena irrompe Matteo Renzi.
Il giovanotto fiorentino, già sindaco di Firenze, prende il partito tra le mani e ne fa strumento del contro e non del confronto. Spacca la classe dirigente. Vuole innovare senza recupero della memoria. Attraversa i territori alla ricerca di fedelissimi che non sempre rispondono al criterio della competenza. Attua la cosiddetta rottamazione che diventa un modo per escludere e non per confrontarsi. Sono le prime mosse che hanno un duplice effetto. Da una parte esse consegnano all’elettore l’illusione che cancellando il passato, non lusinghiero, di una politica ferma al palo, corrotta, incapace di reagire, può nascere un futuro diverso. Dall’altra esse sradicano, in nome di una demagogia promettente, i valori su cui si sostanzia la democrazia reale. In realtà, Renzi innovatore sembra avere ragione in una prima fase se è vero, come è vero, che presentatosi alle primarie nel febbraio del 2013 ottiene un successo personale molto significativo: il 67,5 dei consensi.

E’ questa la fase migliore del suo avvento nella politica nazionale. Ma è anche quella che comincia a mostrare alcuni limiti insopportabili, come quello di costruire intorno a se il cosiddetto “giglio magico” , con alcuni dei componenti che molto spesso finiscono nelle maglie della giustizia. Ma prima che ciò avvenga l’astro nascente colleziona nelle statistische di gradimento percentuali di vero record. Non gli basta essere il segretario del maggior partito italiano, vuole anche la presidenza del Consiglio. La ottiene mettendo all’angolo Enrico Letta. Quella delle dimissioni dell’attuale professore dell’università francese , per quanto sia stata più volte accennata, è ancora una storia tutta da scrivere. C’è chi ha ragionevolmente sostenuto che fu la vittoria dell’arguzia conto il buonismo e la signorilità che in politica non pagano mai.

Il doppio incarico, però, non aiuta Renzi. Serve, soprattutto, alla tanto attesa evoluzione del Pd. Il partito lentamente, da riferimento delle diverse culture democratiche subisce involuzioni e sbandamenti. Ciò determina il risorgere di una questione, peraltro mai risolta, dell’unità della sinistra. Paradossalmente questo processo aiuta Renzi a resistere. La sinistra, che si divide in gruppuscoli facendo emergere vecchie categorie di politici talvolta discussi, diventa la migliore alleata di Renzi che intanto viene riconfermato segretario del partito e gestisce il governo con promesse demagogiche che fanno aumentare il debito pubblico. Dalla parte di Renzi, e i suo favore, si registra la difesa dell’Italia contro le logiche espansionistiche degli altri Paesi, a cominciare dalla Germania; il suo piglio deciso nell’affrontare nell’ambito europeo la questione degli immigrati e dell’accoglienza; l’adozione, con i masterplan, di una diversa politica per il Mezzogiorno insieme a tante altra iniziative che gli restituiscono merito e credibilità Dura poco. La vicenda della modifica della Costituzione che divide il partito, viene vissuta dal premier come fatto personale: Sorge il dubbio che il cambio delle regole del gioco democratico, così ostinatamente cercato, possa nuocere al valore della democrazia nata dalla Resistenza.

Quel poco di identità, che faticosamente il Pd aveva costruito, si frantuma. Le lacerazioni all’interno del Pd sono profonde e dolorose. Generano una prima forma di correntismo che non sarà più eliminabile nel futuro. A questa lesione profonda, segnata da una cocente sconfitta, Renzi sopravvive. Ma l’agire è secondo la logica del tira a campare o , se si vuole, di una politica del giorno per giorno.

Altro segnale preoccupante viene dalla vicenda dello Ius soli. Il baratto tra valori e opportunismo rende fragile e tentennante il percorso di Renzi. Prima decide per un sì a condizioni, poi si accorge che il Parlamento potrebbe regalargi uno schiaffo clamoroso, infine cambia di trecentosessanta gradi il suo percorso, ritirando il provvedimento. Ancora una volta il partito reagisce lacerandosi e allontanando gli obiettivi che si era prefisso, nonostante il governo sia affidato nelle mani rassicuranti di Paolo Gentiloni.

La chicca, come si dice, è delle ultime ore. La forzatura del voto di fiducia sulla legge elettorale. Anche in questo caso le responsabilità della sinistra sono rilevanti. Più che affrontare una battaglia interna al partito, per condizionare le scelte, essa preferisce uscirne e dilaniarsi sulla leadership. Creando un’ulteriore frattura. Già. Perchè quella del voto di fiducia alla legge elettorale è una ferita sanguinante per la nostra democrazia. Nasce da un Patto tra resistenti al potere contro la volontà popolare. Il cittadino, in realtà, non è più arbitro potendo manifestare le proprie scelte, ma è succube del potere che impone il suo volere. Quel cittadino arbitro, tanto e giustamente descritto dall’indimenticabile giurista Ruffilli ucciso dalle Br,, con questa legge elettorale diventa schiavo di alcune sette che manipolano il consenso per sopravvivere a se stesse. Dieci anni dopo il Pd, partito che doveva essere garante delle regole democratiche e dell’alternativa democratica, diventa protagonista di un patto scellerato. Si cancellano le identità, si genera un’assurda confusione. Che può solo far male al Paese. Camera consenziente e Senato speriamo che se la cavi.

di Gianni Festa edito dal Quotidiano del Sud