Corriere dell'Irpinia

Pepicelli, eroe delle Fosse Ardeatine

Di Antonietta Tartaglia

A te Olga e alla nostra cara Biancamaria, che in questo momento mi siete lontane da casa, ma ancor più vicine nel mio cuore, tutto il mio affetto, tutto il mio bene, tutto il mio amore
Dal testamento spirituale dell’eroe scritto a Roma 15 giugno 1943, ore 22, lontano da Olga e dalla figlia Bianca Maria che erano in salvo ad Altavilla.

Emblematica e toccante è la storia di Biancamaria. Aveva tre anni quando il papà Francesco Pepicelli fu fucilato il 24 marzo del 1943 alle Fosse Ardeatine; da allora il fiocco bianco nei suoi capelli si tinse di nero. L’eroe, nato a Sant’ Angelo a Cupolo (Benevento) il 19 maggio del 1906, aveva sposato l’altavillese Olga Egidio, imparentata con mio padre; quindi la tragica narrazione della sua coraggiosa vita ha accompagnato la mia infanzia. Ricordo la signora Olga, bella ed elegante, dietro il bancone della sorella, chiamata in paese con nome patronimico ‘a zì ‘Peppinella ‘e Zarafin’, in quel negozio sott’u’Ponte su cui campeggiava una grossa targa: ‘Serafino Egidio, oggetti da regalo e generi diversi’. Rivedo il suo bel volto triste di fronte all’altare della Madonna Addolorata, un tempo sulla navata destra della chiesa, attualmente a sinistra dell’Altare Maggiore.

Ancora oggi Biancamaria, che ha rinnovato il nome dell’eroico padre nel proprio figlio, continua a sedersi nei banchi di fronte alla statua della Madonna dolente. A distanza di anni, leggendo le lettere del suo papà, ti compenetri nel dramma di un uomo che doveva scegliere, come l’eroe troiano Ettore, tra l’infinito amore per la famiglia e il forte senso del dovere verso la patria. E scelse: ‘Ignoro, oggi, quale sarà la mia morte e quando essa avverrà; sono pronto al passo estremo sin da questo momento secondo la volontà del Signore. Desidero ardentemente però che essa fosse per la cara patria poiché son convinto che è la più bella e la più Santa… Comunque e dovunque avvenga la mia morte desidero che le mie spoglie restino allo stesso posto ove chiuderò la mia esistenza”. (Dal testamento spirituale) Le sue parole diventano particolarmente accorate e tenere quando si rivolge ai suoi familiari: ‘Cara Olga quando leggerai questa lettera il mio corpo è immoto, la mia vita è spenta. A te Biancamaria che fosti l’unico scopo della mia vita, il tuo ‘babbuccio’ come lo chiamavi sempre a due anni, ti augura una vita lunghissima. Sii buona mia cara, abbi fede in Dio”.

Dopo quelle ultime volontà riuscì a salutare per l’ultima volta ad Altavilla la moglie e la figlia, e a Montorsi la sua famiglia di origine. Era il 26 agosto del 1943. Poi, nonostante gli allarmi a Caserta ed i bombardamenti su Capua, ripartì per la Città Eterna. Dopo l’otto settembre entrò a far parte delle organizzazioni clandestine della Resistenza romana con il compito di collegare il gruppo dei carabinieri, comandato dal generale Filippo Caruso, con quello dell’esercito del colonnello Fossi, rappresentato, per le azioni congiunte, dal maresciallo di artiglieria Mario Haipel.

Gli incontri di coordinamento tra i due eroi avvenivano ai mercati traianei, presso l’ufficio del rag. Boffa, amico di entrambi e direttore della mostra dell’Artigianato laziale. Era il 18 marzo del 1943 quando l’eroe, recatosi all’appuntamento, trovò due persone in abiti borghesi e non l’amico. Chiese subito: ‘Dove’ è Mario’? Il direttore gli fece cenno di andar via. Ma i due uomini – altro non erano che due SS – lo bloccarono. Egli poteva reagire, era alto circa un metro ed ottanta ed era forte, ma non si divincolò perché aveva documenti falsi. I due aguzzini lo condussero con una camionetta nell’atroce carcere della Gestapo di via Tasso. Era riuscito, comunque, ad avvisare, tramite Boffa, sia il gruppo dell’esercito che quello dei carabinieri, sia la famiglia del suo avvenuto arresto. Nella sede della Gestapo fu identificato come Francesco Pepicelli da una: ‘signorina che faceva parte del gruppo stesso, la quale tutti i giorni si vedeva con Franco per il ritiro della posta. Essa ha personalmente riconosciuto ed accusato Franco… Ieri l’altro [29 luglio1944] si procedeva all’arresto della colpevole e di altri suoi compagni. (Dalla lettera ad Olga del 31.7.1943 di Mario Pepicelli). In quel ‘losco’ luogo poté riabbracciare l’amico Haipel, sul cui volto e sul cui corpo erano ben visibili i segni delle torture.

Il dramma dei sei giorni trascorsi in prigione verrà raccontato, successivamente, al fratello dal suo compagno di cella scampato al triste destino. Erano le 14,30 d’un pomeriggio di primavera del 24 marzo, — giorno dopo l’attentato di via Rasella — quando i corridoi della prigione risuonarono del passo cadenzato degli scarponi chiodati delle SS, lugubre e sinistro martellìo che lasciava presagire l’incombente fine. Il prigioniero politico Francesco Pepicelli, con le mani legate dietro alla schiena, venne caricato dalla polizia tedesca su un furgone chiuso, per essere condotto alle cave di via Ardeatina. Nel buio umido delle grotte fu fucilato insieme al suo amico, ad altri 12 ufficiali dell’Arma, ai tanti prigionieri che le SS avevano prelevato da Regina Coeli e, con altri civili rastrellati dopo l’attentato. Per la legge della rappresaglia dovevano essere 330 vittime, ma in realtà furono condotti al massacro cinque eroi in più. Gli sfortunati martiri furono disposti su cinque file e furono uccisi, non da un plotone di esecuzione, ma uno alla volta, con uno sparo alla nuca, dopo essere stati costretti ad inginocchiarsi sopra i cadaveri di chi già era stato giustiziato. Ciò spiega perché il corpo del nostro eroe fu trovato in posizione ‘quasi raggomitolata. Riverso sul lato sinistro, con i polsi legati dietro la schiena… Causa della morte: scoppio del cranio da tre colpi di arma da fuoco al capo esplosi da minima distanza. (Dal referto medico legale- salma n. 79). Un frate sentì quegli spari e pregò.

Il maresciallo Pepicelli andò incontro alla morte con serenità, come ricordato dalla figlia in una memoria consegnatami nel 2016 “ Nel pieno vigore della vita guardando sereno la sorte che gli veniva incontro benediceva il destino che, preferendolo, lo aveva voluto eroe, così come aveva immaginato in un discorso del ‘41 alla festa dell’Arma: “La loro voce sarà tacita e penetrante, il loro esempio ci sarà di sostegno quando nel difficile cammino della via del dovere ci troveremo di fronte ad un bivio che ci imporrà la lotta.’ A questo bivio nel marzo del ‘44 è giunto mio padre: o il dovere e la patria o me e mia madre. Quel giorno mio padre ha scelto il dovere. (Dalla memoria consegnatami da Biancamaria).
Per occultare l’orrendo massacro i Tedeschi fecero saltare con l’esplosivo l’ingresso delle grotte per coprire quei martoriati corpi con le macerie, convinti che non sarebbero mai piu stati ritrovati. Intanto ad Altavilla la moglie Olga con un vestito a fiori, si recava quotidianamente alla fermata dell’autobus, nella speranza di poter riabbracciare il suo Franco. Le sue speranze furono per sempre recise il quattro agosto del 1944. Proprio in quel giorno il fratello del martire, Mario, militare nell’esercito, era riuscito ad identificarne il corpo, grazie ad un biglietto trovato nel taschino a sinistra dei pantaloni, ove era scritto: “Vi penso tutti con affetto Franco”. Nel referto medico si legge: ‘Nel taschino dei pantaloni alcuni foglietti piegati di opuscoli di propaganda antifascista tra cui uno porta i bordi scritti a mano con scrittura diritta a firma Franco”. Ma Mario aveva già presagito che la salma n. 79 apparteneva al suo caro. Lo aveva intuito dalle scarpe nere basse risolate. La sinistra, al centro della suola [presentava] una piccola toppa. Lo aveva capito dalla ‘giacca macchiata di creta e sangue’. (Dal referto medico citato). L’odissea ed il dramma dell’identificazione, contenute in una lettera del 6 agosto 1944 scritta dal cognato ad Olga, lasciano dentro ancora oggi un singhiozzo strozzato. Le sue membra martoriate furono avvolte in un sudario, come lui aveva esplicitamente chiesto nel suo testamento spirituale: “Il mio corpo non dovrà essere vestito ma solo avvolto in un comune lenzuolo e rinchiuso in una cassa comune senza iscrizioni né ornamento, ma solo una croce”. (Dal testamento spirituale). Riposa nel sacrario delle Ardeatine.

Una targa apposta ai mercati traianei ricorda il suo sacrificio e quello del suo amico Haipel; ma molte scuole, piazze, strade d’Italia immortalano il suo nome. Benevento, la sua Benevento. gli intestò la scuola allievi carabinieri. Dopo la tragedia Biancamaria con il fiocco nero tra i capelli si recava spesso con la madre alle fosse Ardeatine. Dal 1949 gli eroi riposano nel nuovo sacrario. Una lapide ricorda il loro massacro “Fummo trucidati in questo luogo perché lottammo contro la tirannide interna per la libertà e contro lo straniero per l’indipendenza della Patria. Sognammo un’Italia libera, giusta, democratica. Il nostro sacrificio ed il nostro sangue ne siano la sementa ed il monito per le generazioni che verranno». Nel mese di maggio del 1952, in occasione del 138° Annuale dell’Arma, con una cerimonia solenne la vedova ricevette dalle mani del Presidente della Repubblica la medaglia d’oro che lo stesso Luigi Einaudi volle appuntare sul petto con una spilla da balia. Nel vedere la piccola Biancamaria le fece una carezza sussurrando: ‘Bimba mia”.
Era una carezza che esprimeva l’umana solidarietà per Biancamaria, per tutti gli orfani ed per i morti bambini delle guerre di ieri e di quelle attuali. Oggi è un tocco leggero, intriso di umanità, sulla guancia spenta di Alisa dal piumino blu, su quello di Polina dalla ciocca rosa, assurte a simbolo dell’attuale strage degli innocenti.

 

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