Perché non fare come a Londra?

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Nella difficile fase che si è aperta con le dimissioni di Matteo Renzi in seguito al risultato del referendum costituzionale, disastroso per il governo, il Capo dello Stato si sta muovendo con la necessaria celerità e determinazione, nella consapevolezza che il Paese non può restare in bilico troppo a lungo. I 19 milioni e mezzo di voti contrari alla riforma (6 milioni in più dei favorevoli), distribuiti in tutte le regioni ma con una larga prevalenza in quelle meridionali e in generale fra le componenti dell’elettorato che per condizioni economiche o per età sono state le più colpite dalla crisi economica. E le più trascurate dall’assenza di una politica sociale inclusiva, non esprimono soltanto la volontà di difendere la Costituzione vigente, ma anche e forse soprattutto una protesta quasi disperata contro la sordità della politica e delle istituzioni, entrambe più attente alle alchimie del potere che alle esigenze dei cittadini, titolari della sovranità, che in un sistema parlamentare viene esercitata per delega. Nel voto del 4 dicembre si è manifestata con allarmante evidenza una drammatica rottura fra rappresentanti e rappresentati, fra popolo e istituzioni, il che ridicolizza l’affrettarsi di vincitori e vinti a piantare le proprie bandiere sulle percentuali dei sì e dei no, come se il risultato del voto referendario fosse immediatamente spendibile sul mercato della politica, che obbedisce a regole diverse. La storia anche recente insegna che persistendo su tale cieco convincimento, si andrebbe incontro a cocenti delusioni. Del rischio di una pericolosa contrapposizione fra quello che un tempo si chiamava “paese reale” contro il “paese legale”, e della necessità di intervenire per sanarla, si è fatto interprete il presidente Mattarella nella sua prima dichiarazione subito dopo il voto, quando ha reso omaggio alla “testimonianza di una democrazia solida” fornita dagli elettori, invitando al contempo le forze politiche a corrispondervi creando un clima “improntato a serenità e rispetto reciproco”, qualità che brillano per assenza dalla politica italiana da diversi anni. Se la ferita non venisse rapidamente rimarginata, la stessa unità nazionale sarebbe in pericolo, e l’Italia sarebbe pronta ad ogni avventura. Il punto di partenza per la necessaria ricucitura non può che essere un’assunzione di responsabilità da parte di tutti, a cominciare dai partiti che compongono la maggioranza, la cui consistenza non è stata intaccata dal voto referendario, come confermato dalla larga fiducia ottenuta al Senato sulla legge di bilancio appena due giorni dopo il referendum. Si tratta dunque di svelenire il dibattito liberando il campo dalle tossine che hanno inquinato gli ultimi mesi di un confronto politico esasperato, nel quale la stessa proposta di riforma costituzionale è stata, al di là del merito delle norme, il pretesto per una battaglia per l’egemonia condotta da una parte e dall’altra senza esclusione di colpi. Le consultazioni del Capo dello Stato, che pure obbediscono in parte ad un rituale barocco e in qualche caso sconcertante (è stato ricevuto anche un gruppo che si definisce “Euro-Exit”, che di per sé sarebbe fuori dalla Costituzione), rispondono proprio all’esigenza di far nascere, nell’ambito della maggioranza o a partire da essa, un governo in grado di affrontare gli impegni internazionali in agenda, modificare una legge elettorale ormai inadatta ad un sistema bicamerale, approvare misure urgenti per alleviare un malessere sociale inaccettabile. A chi tocca fare la prima mossa? Pur nella differenza di circostanze e consuetudini, il recente esempio inglese può aiutare. Anche a Londra un premier che aveva giocato la sua leadership politica sul tavolo, improprio, di un referendum, una volta sconfitto ha lasciato il campo ad altro esponente del suo partito (rimasto maggioritario) che ha formato un nuovo governo chiamando a farvi parte personalità politiche che, nel referendum, si erano schierate contro la linea ufficiale. Così Boris Johnson è diventato ministro degli Esteri e il nuovo esecutivo, espressione di un partito che non voleva la Brexit, negozierà con Bruxelles l’uscita dall’Europa, come richiesto dagli elettori. Seguendo questo schema, Matteo Renzi dovrebbe dare il via libera ad un esponente del Pd meno oltranzista sul progetto riformatore della Costituzione (ce n’è più d’uno), che dovrebbe a sua volta aprire le porte del governo alla minoranza piddina del no, ricostruendo così l’unità del partito e varando un programma di riforme sociali che diano una prima risposta al malessere che ha gonfiato le urne referendarie. D’ora in poi, la partita di Renzi si gioca prevalentemente nel Pd, da lui trascurato nei mille giorni di palazzo Chigi. E’ da lì, dal congresso imminente, che deve cominciare a ricostruire il suo consenso. Lo ha già fatto una volta, dopo una sconfitta, e l’impresa gli è riuscita. Può riprovarci.
edito dal Quotidiano del Sud