Protesta o rivolta morale? 

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Dal giorno dopo le elezioni ci si interroga sui motivi che hanno determinato la straordinaria vittoria del Movimento 5 Stelle. Le tesi sono tante e diverse tra loro. C’è chi, sbrigativamente, a me pare, assegna al successo di Di Maio e compagni la motivazione della protesta, in particolare nel Mezzogiorno. Ci può stare, ma non si esaurisce qui. E’ vero. Il Sud d’Italia è stato negli ultimi decenni maltrattato. L’emigrazione intellettuale ha impoverito la condizione sociale. La fuga dei cervelli ha causato quella desertificazione che inesorabilmente ha riportato a tempi passati. Quelli delle vedove bianche. Tutto vero. Il circolo vizioso della disoccupazione si è inverato nella disperazione di un lavoro che non fosse precario. Il caporalato ha assunto nuove forme e modelli diversi. Basterebbe riflettere sullo sfruttamento degli immigrati, prigionieri di speculatori senza scrupolo. Lo stato di diritto è stato in parte soppiantato dall’antistato criminale che ha sfondato anche il muro dell’innocenza, come dimostra il fenomeno delle baby gang. Tutto questo ha reso la radice infetta producendo guasti enormi. Da qui l’ insopportabilità che ha nutrito quella grande parte di società civile decisa a percorrere strade politiche diverse. Sarebbe però un grave errore ritenere che tutto questo sia accaduto per fatalismo e non anche per responsabilità degli stessi meridionali.

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 Qui si colloca la seconda motivazione del successo di un movimento non paludato, non incrostato dal malaffare. Si è compreso che il sistema di potere che ha reso la società diseguale, era giunto al capolinea. I baroni, i feudatari, i gestori del voto di scambio, i profittatori dei bisogni, i massacratori dell’altrui dignità, i falsi gestori del pensiero politico, potevano con un voto popolare essere bocciati e quanto meno limitare i danni.
Da qui la rivolta morale, non solo protesta, ma offerta di un possibile cambiamento della gestione del Paese. E’ abbastanza singolare, come alcuni ritengono, giustificare la vittoria dei Cinquestelle con la promessa del Reddito di cittadinanza. Certo, c’è anche questo che ha alimentato non poche speranze, anche se è ancora tutto da verificare.

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 C’è, a mio avviso, ancora un’altra motivazione per spiegare il successo dei Cinquestelle. La crisi profonda del Pd di Matteo Renzi. E’ presumibile, e le analisi lo stanno dimostrando, che una gran parte dei voti del Partito democratico siano confluiti nel movimento di Grillo. Gli errori del segretario del Pd sono stati enormi. Dopo l’ondata di simpatia che aveva suscitato nel Paese, Renzi ha il più delle volte ritenuto ininfluente la natura democratica del partito. Prima personalizzando la battaglia sul referendum costituzionale, poi penalizzando migliaia di cittadini e i loro risparmi con il salvataggio di banche amiche, poi scegliendo i candidati per le elezioni politiche non con il criterio della territorialità, ma con l’ambizione di portare in Parlamento gli amici degli amici, quella corte che aveva dato vita al cosiddetto cerchio magico. Di qui l’irritazione di tanti democratiche non hanno sopportato l’idea di un partito gestito come feudo privato. La crisi intanto evolve e nuovi scenari si presentano per il Pd. Per Matteo Renzi si avvia la stagione della solitudine o l’ambizione di dar vita ad una nuova formazione politica.

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 Ora il problema urgente è quello della governabilità. Su questo si misura la capacità del M5s, primo partito, ma senza maggioranza necessaria. Deve mettere in atto tutta la sua capacità di mediazione, senza stravolgere il programma che si è dato. Come uscire dall’empasse? Le soluzioni che adotterà il Capo dello Stato, dopo l’elezione dei presidenti di Camera e Senato e la costituzione dei gruppi parlamentari sono, tra le altre, almeno tre. La prima: l’ipotesi di una prosecuzione ad interim del governo Gentiloni, con l’impegno di modificare la legge elettorale e approvare la legge di Bilancio. La seconda: un governo di solidarietà nazionale con monocolore M5S e astensione di gran parte del Pd. Questa formula fu adottata già nel 1976 con il terzo governo guidato da Giulio Andreotti. Terza ipotesi: il ritorno alle urne. Se ciò dovesse accadere, sarebbe clamoroso e preoccupante per la stessa tenuta democratica del Paese. Seguiremo con grande attenzione l’evolversi della situazione fidando sulla saggezza di Mattarella e sul richiamo alla responsabilità delle forze politiche fatto in occasione della Festa delle donne al Quirinale.

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 Il successo del Movimento Cinque stelle non poteva non avere ripercussioni anche in Irpinia. Valgono per questo territorio le motivazioni già espresse per il Mezzogiorno: desertificazione, disoccupazione, mancato sviluppo. ecc. Anche qui ha inciso fortemente la crisi del Pd che ha consentito a Carlo Sibilia di fare il pieno dei seggi parlamentari (cinque su sette) stabilendo un record nel numero del mandato di rappresentanza. Non v’è dubbio che la cacciata di Giuseppe De Mita dal Parlamento, ancora una volta bocciato dal consenso elettorale (mai eletto in una consultazione popolare) e con il potere ridotto dei suoi sponsor, abbia confermato che i tempi sono nettamente cambiati. Nessuna soggezione, come avveniva un tempo; decisa condanna del clientelismo e del nepotismo, voto espresso all’insegna della libertà. Altrettanto dicasi per l’altro candidato di una lista collegata al Pd, Angelo D’Agostino, il cui potere economico non è servito a consegnargli un seggio in Parlamento. Gli altri due candidati del Pd, Luigi Famiglietti e Valentina Paris, sono stati vittime di se stessi, delle lacerazioni del Pd, ma anche dalle scelte sbagliate nelle alleanze. Il solo targato Pd, di storia socialista, è Umberto Del Basso De Caro che facendo leva sul consenso degli ex demitiani e manciniani, è riuscito nell’intento di farsi eleggere. E’ evidente che anche in Irpinia il Pd deve ricostruire il suo futuro. Il primo appuntamento da onorare è il congresso provinciale. Spetta al commissario Ermini convocare e definire la data congressuale che, tenuto conto delle elezioni amministrative di fine maggio, si dovrebbe svolgere entro i primi quindici giorni di aprile. Ovviamente il congresso dovrà svolgersi all’insegna della lealtà e della trasparenza. Va recuperato un tesseramento credibile, epurato dai pacchetti di tessere decisamente inquinati. La elezione di un segretario provinciale si rende necessaria proprio in vista delle elezioni amministrative che vedono molti comuni irpini impegnati per il rinnovo dei consigli comunali e l’elezione dei sindaci. Altrimenti, senza un preciso riferimento, e visto il successo del M5S e la riorganizzazione del centrodestra, il Pd rischierebbe di scomparire dalla realtà provinciale. Il segretario eletto, invece, avrà il difficile compito di riorganizzare le fila e avviare un progetto, in particolare, per la città capoluogo.

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Per la città di Avellino la scelta dei candidati deve essere oculata e, soprattutto, responsabile. L’eredità che lascia l’amministrazione guidata dal sindaco Paolo Foti è pesante. Forse la peggiore dall’avvento della Repubblica. Sia chiaro: non tutte le responsabilità sono attribuibili al primo cittadino, anche se su di lui pesano alcune scelte sbagliate, mancanza di decisionismo e di autonomia. Ma egli è stato anche vittima di ricatti esercitati non solo dalla burocrazia, ma anche da chi, facente parte del Consiglio, lo ha utilizzato per manovre oscure e clientelari. Non solo. Il partito di riferimento, il Pd, non gli ha dato il minimo supporto. Il timore è, però, che chi si è reso responsabile dello sfascio della città, del degrado subito, e non parlo del solo Foti, voglia ripresentarsi sulla scena amministrativa come se nulla fosse accaduto. Gli avellinesi ben sanno le malefatte compiute (l’elenco sarebbe lunghissimo) e ben conoscono i personaggi che le hanno gestite. La scelta che si impone per la città, dunque, oggi è far vincere la cricca o, invece, com’è giusto, impegnarsi per una grande svolta morale. Se qualcuno del Pd pensa di proporre vecchi arnesi complici della crisi morale della città sappia che si rende responsabile di una clamorosa bocciatura da parte dei cittadini. A niente sarebbe servita la lezione del voto del 4 marzo. La decisione non può essere quella di premiare i trasformisti, pronti a salire sul carro del vincitore, con la pretesa di una ricompensa in cambio del supporto dato in occasione delle elezioni politiche. La decisione deve essere ispirata dal coraggio della libertà e dall’obiettivo di risolvere la questione morale.

di Gianni Festa edito dal Quotidiano del Sud