Referendum ed elezioni amministrative

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Fra due settimane per il referendum sulle trivellazioni sotto costa e fra due mesi per il rinnovo di numerose amministrazioni comunali, gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimere un voto che – è prevedibile – sarà interpretato più come un segnale politico pro o contro il governo che non – come si dovrebbe – come un giudizio sull’oggetto immediato della consultazione: le fonti di approvvigionamento energetico e la guida di Comuni importanti come Roma, Milano, Napoli e Torino. C’è una distorsione nella valutazione della volontà popolare che altera e inquina il significato di importanti appuntamenti istituzionali, e che merita qualche attenzione anche al di là dei casi specifici in esame. Partiamo dal referendum, che è la scadenza più vicina. Si vedrà da subito se la vicenda delle dimissioni di Federica Guidi, costretta a lasciare l’incarico ministeriale in seguito al conclamato conflitto d’interessi emerso nell’inchiesta sullo smaltimento dei rifiuti petroliferi in Basilicata, avrà ripercussioni sul voto e sulla stessa stabilità dell’esecutivo; ma il problema qui sollevato è un altro. Per la prima volta da quando, nel 1970, è stato attivato per via legislativa l’istituto del referendum abrogativo, sono le Regioni (nove) a chiamare al voto tutti i cittadini italiani contro una legge dello Stato, varata dal Parlamento. Poiché la materia del contendere – la politica energetica – è attualmente di competenza legislativa concorrente fra Stato e Regioni, la sede istituzionale propria per la soluzione del contenzioso sarebbe stata la Corte Costituzionale, arbitro naturale dei conflitti di attribuzione: invece si è preferito il ricorso alla volontà popolare sull’unico quesito referendario superstite dei sei inizialmente proposti, e ciò proprio per marcare, ben oltre il merito, il significato politico della consultazione. Ancora una volta ha prevalso la retorica della democrazia diretta che, abusando dello strumento referendario, finisce per alterarne il significato. Uno studio di Openpolis pubblicato in queste settimane fornisce dati significativi: su 66 referendum abrogativi ammessi dal 1970 (quello sulle trivelle è il 67°), quasi la metà (il 40,91%) non ha raggiunto il quorum necessario per la validità; e il 41,03% di quelli che l’hanno superato ha avuto esito negativo. Inoltre, più di 60 quesiti referendari sono stati giudicati inammissibili dalla Corte Costituzionale (ultimo quello sulla legge Fornero promosso dalla Lega nord). Il boom dei referendum fu raggiunto nel ventennio 1990-2010, con quasi cinquanta consultazioni, la maggior parte delle quali risultate inutili perché respinte dalla Corte o dagli elettori. Il tentativo di sottrarre lo strumento referendario al capriccio di comitati promotori improvvisati o ad una impropria dialettica fra articolazioni dello Stato, non ha avuto pieno successo neppure nel progetto di riforma costituzionale che verrà a sua volta sottoposto a referendum (in questo caso confermativo, senza quorum) in autunno: sale da 500 a 800 mila il numero delle firme richieste ma non viene introdotto il vaglio preventivo della Corte, che avrebbe il merito di scremare i quesiti inutili o capricciosi e bloccare l’abuso inflattivo dello strumento, restituendo al referendum il suo significato originario di espressione della volontà popolare in concorso col parlamento, secondo quanto stabilito dall’articolo 75 della Costituzione, evitando degenerazioni e artificiose contrapposizioni fra sovranità popolare e legittimità delle istituzioni rappresentative. Anche le aspettative miracolistiche legate all’introduzione, nel 1993, dell’elezione diretta dei sindaci, sono andate in buona parte deluse. Si pensava che i Comuni potessero diventare un livello istituzionale di partecipazione diretta dei cittadini alla gestione della cosa pubblica, e l’incubatore di una nuova classe politica legata al territorio. Con la crisi dei partiti di massa, né l’uno né l’altro obiettivo è stato pienamente raggiunto: anzi, suo malgrado, l’elezione diretta è stata all’origine di gravi degenerazioni, con il degrado della vita amministrativa dei Comuni e punte di personalismo, demagogia e populismo che sono sotto gli occhi di tutti. Ora, il duplice ravvicinato appuntamento elettorale potrebbe essere l’occasione per un ripensamento dell’intera materia; ma è difficile che ciò avvenga, e le polemiche che seguiranno alle doverose dimissioni di Federica Guidi non aiuteranno certo a ricondurre il dibattito nella sede sua propria.
edito dal Quotidiano del Sud