Renzismo e partiti del leader 

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Il renzismo e l’anti renzismo sono due facce della medesima medaglia, frutto della personalizzazione dei partiti. Tutto cominciò nel 1994 con la discesa in campo di Berlusconi e la creazione del primo partito personale, impostato sul modello aziendale, rivoluzionando così il quadro politico italiano e dando inizio alla seconda repubblica. Da allora i partiti sono diventati sempre più personalizzati e il leader ha finito per assumere la figura del Capo. Di colui che detta la linea politica, fissa gli obbiettivi, prefigura la strategia, sceglie i collaboratori.

E gli stessi parlamentari che gli devono essere fedeli ed ubbidienti. Si circonda di esecutori più che di collaboratori. Lo ha fatto, e lo fa ancora Berlusconi – anche se dimezzato- che non ha mai fatto un congresso ed ha sempre nominato o revocato i suoi rappresentanti. Dopo Berlusconi è stata la volta dell’Italia dei Valori, creata da Di Pietro e squagliata, come neve al sole, alla sua caduta. Lo fanno Grillo con il suo partito/movimento della Casaleggio associati, la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia della Meloni. Il ridimensionamento di Forza Italia e la fine dell’Italia dei Valori confermano l’idea che i partiti personalizzati seguono le sorti dei loro capi che finiscono, spesso, per diventarne proprietari. E’ così nato il berlusconismo, il dipietrismo, il grillismo ed in ultimo, ma non ultimo, il renzismo facendo cambiare fisionomia perfino al partito più strutturato e radicato nel territorio, erede delle tradizioni e dei valori delle culture della sinistra democristiana e dei post- comunisti. Non a caso molti commentatori politici lo hanno chiamato PDR, il partito di Renzi.

Non è più la “Ditta” di Bersani, che si considerava un amministratore pro tempore che avrebbe ceduto il comando al prossimo di turno, ma che della Ditta conservava il Logo (simbolo senza il suo nome) e il suo Know How (valori e culture tradizionali) elaborando la strategia contingente nell’equilibrio e nella fusione delle varie sensibilità o correnti che dir si voglia. Con Renzi è tutta un’altra storia. Non esiste un programma condiviso né valori o obbiettivi che ne continuino la tradizione e le radici, ma valutazioni del momento finalizzate più alla conquista del potere ed al suo mantenimento che alla realizzazione di un progetto di società.

Per un po’ il gioco gli è andato bene per la giovanile novità, lo slogan della rottamazione e gli 80 euro, elargiti a parte del ceto medio, che gli hanno fatto fare il pieno dei voti alle elezioni europee del 2014. Ha creduto di poter imporre a tutti la sua linea politica (di uomo solo al comando nel partito ed al governo) e la sua idea di democrazia proponendo una riforma costituzionale profondamente radicale e dirompente che Scalfari ha battezzato “democratura”, sul modello di Putin, tra democrazia formale e dittatura sostanziale. Gli italiani, a grande maggioranza, gli hanno detto di no e lui ha dovuto lasciare la Presidenza del Consiglio e la guida del partito, senza, però, abbandonare la politica, come aveva promesso.

Dopo appena qualche mese e senza nessuna autocritica o analisi sulla costante perdita di voti, specie nelle zone di maggior radicamento sociale, ha riconquistato il partito e sta facendo di tutto per tornare al governo pur senza cambiare di una virgola il suo carattere e la sua concezione della politica. La scissione di una parte della sinistra (Bersani, Speranza, Rossi), che hanno seguito i vari Fassina, Civati, Cofferati che se ne erano andati per prima, è stata una scelta sofferta e motivata anche se tardiva, non riconoscendosi più nel partito di Renzi e tesi alla riconquista di un elettorato di sinistra deluso e sfiduciato che si è rifugiato nell’astensionismo e perfino nel voto a Grillo o alla Lega. Altri ne seguiranno perché Renzi, come ha dimostrato nell’ultima direzione del partito a parte chiuse, non è cambiato né nel carattere né nella strategia, continuando a voler andare avanti da solo senza coalizioni e acuendo la frattura con la sinistra interna di Orlando e infastidendo perfino un suo alleato di ferro come Franceschini.

Ma cos’è il renzismo? Secondo due autorevoli commentatori politici del calibro di Ferruccio De Bortoli e Piero Ostellino: “Renzi è un caudillo sgarbato e privo di qualsiasi spessore culturale”. Il renzismo non esprime una visione compiuta del mondo né un progetto di società. Renzi non è né un veltroniano né un post comunista e neanche un democristiano alla Moro. Non è un Prodi (altro spessore culturale e federatore) né un Letta (altro stile ed altra classe); non è un ulivista ed ha sensibilità diverse dalla sinistra; non è un liberal ed è inviso ai sindacati, non piace ai no global e a molta parte della società civile. Semplicemente non ha cultura di riferimento. Non si conosce il suo pensiero politico, se lo ha. Rappresenta, con i suoi collaboratori del giglio magico una generazione del post- post- post ideologico del cambiare tanto per cambiare sull’onda del giovanilismo. Non ha valori di riferimento e la sua forza è basata sull’uso della comunicazione, mista di frase fatte, populismo, nemici di riferimento e controllo ed uso della televisione e dei giornali. In lui pulsano sentimenti di deriva autoritaria? Certo gli piace essere un uomo solo al comando. Riuscirà ad invertire la china che lo ha portato da un indice di gradimento del 50% a quasi la metà in questi ultimi anni? Porterà il Pd alla risalita o lo porterà a sbattere? Le prossime elezioni regionali in Sicilia ci daranno una ulteriore risposta.

edito dal Quotidiano del Sud

di Nino Lanzetta