Riannodare i fili del dialogo

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Domenica scorsa si è votato in Ungheria e domenica prossima si voterà in Francia. Apparentemente due elezioni diverse e fuori dai nostri confini che hanno però risvolti importanti per la politica italiana. La guerra in Ucraina ha ovviamente dominato la scena e si è inserita nel dibattito elettorale. In Ungheria Orban ha vinto contro il suo sfidante Péter Márki-Zay che in campagna elettorale ha indossato sul petto due nastri giallo e azzurro come la bandiera ucraina per sottolineare la sua vicinanza a Kiev. Orban al contrario, fieramente anti Zelens’Kyj e leader europeo più vicino al Cremlino, dopo la vittoria ha ricevuto i complimenti di Matteo Salvini e Giorgia Meloni che adesso guardano con interesse al voto in Francia di domenica prossima. Elezioni che non saranno decisive perché, con ogni probabilità, ci sarà bisogno del turno di ballottaggio previsto per il prossimo 24 aprile visto che nessuno dei 12 candidati sembra poter raggiungere il 50 per cento dei voti al primo turno. I favoriti per la sfida finale sono il presidente uscente Macron e la leader della destra Marine Le Pen, gli stessi di cinque anni fa. Nei sondaggi più staccati appaiono il candidato della sinistra Jean Luc Melenchon, quello di estrema destra Eric Zemmour e la candidata dei Repubblicani Valeriè Pècresse. Il riflesso sulla politica italiana è evidente, soprattutto ora che la guerra, con la sua scia di morte e distruzione, copre ogni altro problema. Tra un anno si voterà anche in Italia e allora torneranno ad affacciarsi le questioni di casa nostra rispetto alla crisi internazionale. Il centrodestra riprenderà il tema del “prima gli italiani” rispetto ai tanti profughi in arrivo e aumenterà la distanza tra l’anima sovranista e quella europeista che oggi convive al governo. I Cinque Stelle, che hanno governato indistintamente con tre maggioranze diverse, devono sempre fare i conti con una identità irrisolta e oscillano tra il pragmatismo di Di Maio e la voglia di tornare al movimento delle origini incarnata da Di Battista e dalla Raggi. L’attivismo di Conte, più di lotta che di governo e fiero oppositore dell’aumento delle spese militari, è figlio principalmente di logiche elettorali che hanno come obiettivo quello di recuperare consensi sul fronte pacifista e marcare una propria diversità. Un problema per il governo Draghi e in prospettiva per Enrico Letta che deve costruire con i Cinque Stelle la coalizione delle prossime politiche e al momento mancano sia la coesione che la credibilità necessaria per stare insieme. Ha scritto Massimo Franco sul Corriere della Sera che stiamo assistendo “ad un colpo di coda dei populismi: si tratti di attaccare i provvedimenti del governo, come fa un M5S in caduta libera; o di abbracciare il più putiniano dei leader come l’ungherese Orban. In questo caso ad esaltarlo sono una Lega in crisi di voti e di strategia, ma anche la destra in ascesa di Fratelli d’Italia. E’ come se in questi mesi grillismo e leghismo fossero rimasti alla finestra, in attesa di capire come muoversi dopo il voto per il Quirinale. La guerra di Putin gli ha regalato una sorta di bussola negativa e la decisione dell’Occidente di offrire aiuti anche militari a Kiev è stato un terreno naturale di incontro tra Conte e Salvini”. Il conflitto in Ucraina è comunque destinato a lasciare a noi e alle forze politiche una lezione importante e il modo migliore per far fruttare questo insegnamento non è quello di soffiare sul fuoco delle polemiche, per incassare ipotetici vantaggi elettorali, ma al contrario individuare soluzioni politiche per riannodare i fili del dialogo partendo dal presupposto che non ci può essere equidistanza tra Mosca e Kiev.

di Andrea Covotta