Ridare un’anima ai luoghi 

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“Rinvenni a notte alta e mi trovai sepolto fino al collo, e sul mio capo scintillavano le stelle, e vedevo intorno il terriccio giallo, e non riuscivo a raccapezzarmi su ciò che era accaduto, e mi pareva di sognare. Compresi dopo un poco, e restai calmo, come accade nelle grandi disgrazie. Chiamai al soccorso per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina, fui cavato fuori da due soldati e steso su una barella all’aperto”.

“Mio cugino fu tra i primi a recarsi da Napoli a Casamicciola, appena giunta notizia vaga del disastro. Ed egli mi fece trasportare a Napoli in casa sua. Mio padre, mia madre e mia sorella, furono rinvenuti solo nei giorni seguenti, morti sotto le macerie: mia sorella e mia madre abbracciate”. Le parole sono del filosofo Benedetto Croce che descrive il terremoto di Ischia del 1883 dal quale si salvò. Quel sisma fece oltre duemila morti, oggi per fortuna sono solo due le vittime. Ma negli anni quello che è cresciuto a dismisura è un altro numero relativo ai condoni per abusi edilizi: quasi 27mila. Diceva Gramsci che la storia insegna ma ha cattivi scolari.

Il caso di Ischia è un caso di scuola. Un terremoto che arriva ad un anno di distanza da quello di Amatrice e del centro Italia. Paesini sbriciolati da una violenta scossa. 298 le vittime. A distanza di 365 giorni dal terremoto la richiesta che arriva da questi comuni è identica a quella delle prime ore: non vogliamo vivere come fantasmi, dovete ridarci la speranza di ricominciare. Una parola semplice da declinare ma difficile da realizzare. E’ accaduto così anche per altre zone colpite dal sisma. Promesse tante, ma purtroppo inefficienze e ritardi sono diventate certezze.

I comuni dell’Italia centrale sono ancora una volta stati sacrificati sull’altare della burocrazia. Il cavillo, la carta bollata, l’indecisione e le tante autorizzazioni anche solo per puntellare un muro portano frustrazione nella popolazione. I numeri sono impietosi. Sono ancora oltre due milioni le tonnellate di macerie da rimuovere. La macchina dell’emergenza è stata in grado di portarne via solo 278mila circa il 12 per cento. Le procedure per appaltare i lavori di raccolta e stoccaggio sono spesso lunghissime e complicate dalla necessità di evitare infiltrazioni criminali oltre che dal distinguere macerie pubbliche e private. Con le macerie ancora a terra è però praticamente impossibile far ripartire la ricostruzione. In molti di questi comuni va a rilento anche l’assegnazione delle casette. I criteri di assegnazione sono fonti di litigi e polemiche. Quello che si avverte, al di là di tanta solidarietà, è un senso di rassegnazione. La speranza di avere una casa vera, di riprendere vita e lavoro quotidiani.

Il terremoto ha frantumato la quotidianità e un contesto sociale. I paesi del centro Italia così come quelli irpini sono tutti montani. Una collocazione geografica non proprio agevole. Già prima del terremoto la gente andava via tornando magari solo nel week end. Il sisma ha distrutto anche questo: dopo il terremoto se ne è andato anche chi voleva rimanere. Ora anche chi ci viveva e lavorava sceglie di andare via, così Amatrice o Arquata sono morti una seconda volta.

Piccoli segni di rinascita ci sono. Hanno riaperto dei negozi e i ristoranti ma non basta per risvegliare un’apatia che si è diffusa. Oggi è il giorno del ricordo, delle manifestazioni, della tanta solidarietà della gente e delle istituzioni che si stringono intorno alle popolazioni colpite. Ma per far tornare a battere il cuore di un paese serve altro. Occorre ridare un’anima ai luoghi.

di Domenico Covotta edito dal Quotidiano del Sud