Di Vincenzo Fiore
«Reperti degli Imperdonabili», questo il titolo del nuovo ciclo di ritratti inaugurato da Prisco De Vivo, artista di origini partenopee e che oggi vive in Irpinia, a Quadrelle. Egli opera presso Lucis – Art Studio Gallery, il suo atelier irpino, luogo di incontro e contaminazioni tra le arti. Le sue prime influenze gli derivano dallo studio dell’arte antica al barocco di Jusepe de Ribera, da Eduard Munch all’espressionismo tedesco. Il suo discorso artistico gira intorno al tema dell’inquietudine umana e si sviluppa in una dimensione estremamente concettuale. È in corso di pubblicazione per Mimesis Edizioni il suo «La radice delle cose. Interviste 1995-2020», a cura di Rosaria Ragni Licinio, con prefazione di Alberto Dambruoso.
Quali autori sono compresi nel ciclo «Reperti degli Imperdonabili» e perché ha scelto questa denominazione?
Gli autori affrontati in questo mio ultimo ciclo sui filosofi, partono da Kierkegaard per arrivare a Savater. Tutto nasce da una profonda riflessione sui testimoni pericolosi del pensiero, idea questa, che già ho portato avanti circa venti anni fa, trattando di Socrate, di Democrito e di Diogene. O anche di Giordano Bruno, il filosofo che eternamente riemerge dalle ceneri, a cui ho dedicato due cicli: «Bruno e l’indistruttibilità dell’uovo» e la «Cenere dell’infinito». Dunque, «Reperti degli Imperdonabili» si pone in continuità con il solco che avevo tracciato in passato.
La scelta di concentrarsi su autori outsider della storia del pensiero non è certo casuale, quanto e perché questi «imperdonabili» hanno influito nella sua formazione personale?
Credo che abbiano influito tantissimo sulla mia formazione di artista, ma anche in quella di poeta. Il pensiero va a Sartre, di cui ho letto quasi tutta l’opera quando avevo diciott’anni oppure a Cioran, di cui nascondevo le opere ai miei amici sotto ad altri libri, per poi leggerlo nel silenzio e nella completa solitudine. Non posso non citare Simone Weil e Florenskij, figure che si imbattono nei meandri più fitti dell’esistenza, per poi arrivare alla limpidezza dell’acqua e della luce.
Con quale tecnica pittorica ha realizzato questi ritratti?
Le tecniche sono innumerevoli. Ho utilizzato materiali poveri e di ritrovo, ma l’elemento principale resta la carta: i cartoni e i brandelli di materie messi insieme come reliquie, che formano quasi una formula chimica di colore e di tracce. Tutto è stemperato dalla poesia delle loro sofferenti espressioni ritratte, una segreta alchimia che può essere letta solo attraverso il pensiero ed il colore.
È corretto affermare che il fiume carsico che collega tutta la sua produzione artistica è una sorta di estetica del dolore?
Non so se si possa parlare di «estetica del dolore», ma di sicuro di una «metafisica della sofferenza» sia in termini esistenziali che spirituali.
Fra tutti i pensatori che ha dipinto, c’è qualcuno a cui è legato particolarmente?
Forse Emil Cioran, Guido Ceronetti e, infine, il temuto e severo Arthur Schopenhauer; costoro più degli altri, in un certo qual modo mi hanno condotto alla mistica. Tuttavia, se vogliamo parlare propriamente di mistica, potrei citare: S. Teresa D’Avila, Angela di Foligno e S. Caterina Da Siena.
È già in programma qualche mostra in Campania?
Le mostre in programma sono diverse e itineranti, vanno dalla Campania a Mantova, toccando Pesaro, Modena, Genova fino ad arrivare a Udine. Sarà realizzato, inoltre, un libro/catalogo a cura di Antonio Di Gennaro, e quasi sicuramente ci saranno contributi da parte di importanti intellettuali e filosofi sia nazionali che internazionali, fra questi sicuramente posso anticipare il nome del teologo Bruno Forte. Infine, è anche in programma un progetto espositivo che coinvolgerà diversi festival culturali.