Salvatore e il campo di Ferramonti

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iventa l’occasione per riscoprire un personaggio sconosciuto ai più, come Paolo Salvatore, funzionario di pubblica sicurezza, chiamato a dirigere il campo di internamento di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, il nuovo numero di Vicatim, diretto da Faustino De Palma, frutto dell’impegno dell’associazio – ne, presieduta da Salvatore Salvatore ed edito da Delta 3. A ricostruire la storia dell’irpino è Faustino De Palma, che pone l’accento sul ruolo cruciale svolto da Salvatore nel tentativo di rendere meno dure e proibitive le condizioni del campo. Ad Israele Kalk, alla guida di un’or – ganizzazione che assisteva i bambini ebrei, in visita a Ferramonti, ribadiva come “gli internati possono fare tutto ciò che vogliono, purchè siano salve le apparenze e mi vengano evitati fastidi e richiami dal Ministero degli interni”. Parole a cui Kalk rispondeva in una lettera chiarendo che “nei pochi giorni trascorsi nel campo ho potuto sincerarmi che gli internati, pur con la disciplina imposta in stabilimenti del genere, vengono trattati con la massima umanità”. De Palma chiarisce come “il campo di concentramento diventò una cittadella autonoma e gli internati ne gestivano le attività. Crearono proprie strutture amministrative, un’assemblea composta dai capi delle camerate democraticamente eletti, che a loro volta nominavano il capo dei capi, educative (una scuola frequentata da tutti i bambini del campo), logistiche (una mensa interna completamente autogestita), culturali (una biblioteca), sanitarie (un gruppo di medici internati), religiose (una baracca adibita a sinagoga). Organizzarono persino tornei sportivi e concerti musicali a cui presenziavano i notabili del luogo”. Frequenti i contatti con la popolazione del luogo, gli internati ricevevano spesso visite di parenti e di personaggi illustri delle comunità ebraiche italiane. Lo stesso Salvatore portava in giro con la sua auto i bambini del campo e consentiva a suo figlio di frequentarli “Con noi era buono – ricorda uno degli internati – ci lasciava fare e molte volte chiudeva pure un occhio su cose che non erano proprio in perfetto accordo con il regolamento e con le disposizioni”. De Palma sottolinea più volte come non fu un semplice “vivi e lascia vivere”, tanto che il direttore non esitò ad utilizzare la sua autorità per difendere gli internati da episodi di brutalità e violenza commessi dai fanatici del regime. Per avere schiaffeggiato pubblicamente un milite della Milizia Fascista subì un’ispezione ministeriale che si concluse nel gennaio del 1943 con la rimozione dalla direzione del campo. Una storia che si affianca ad altri frammenti preziosi della memoria irpina, a partire dalla ricostruzione delle lotte contadine tra storia sociale, cronaca giudiziaria e narrativa affidata a Amato Michele Iuliano e Giuseppe Iuliano. L’attenzione è rivolta alle violenti insurrezioni che caratterizzarono l’Ir – pinia, da Calitri a Morra De Sanctis all’indomani dell’allontanamento dei tedeschi a fine settembre ‘43. A Calitri il capo del Comune, già podestà, Salvatore Zampaglione, fu afferrato e trascinato in strada dalla folla, colpito più volte e salvato solo dall’intervento dei Carabinieri. Un altro gruppo di persone assaltò, invece, la casa dell’ex ammassatore di grani Emilio Ricciardi, colpito a morte da un proiettile come la figlia dodicenne. Ci vollero giorni perché un reparto di truppe italiane, appositamente inviato per l’occasione, riuscisse a riportare il paese alla normalità, mettendo fine alle violenze. Calitri sarà il primo paese a proclamarsi repubblica contadina e antifascista ma l’esperimento durerà poco. 57 gli imputati al processo per saccheggio, devastazione e violenza. Quelle che potevano sembrare attenuanti per i rivoltosi e le vessazioni subite, saranno utilizzate contro di loro. Per dodici imputati la condanna sarà tra i tre e gli otto anni. Un numero, quello di Vicatim, che prosegue con lo studio di Ugo Chiocchini sul ponte Pietra dell’Oglio, lungo la via Appia antica. Mentre Romualdo Marandino si sofferma su alcuni frammenti del Commentarius in Canticum Canticorum di Giuliano di Aeclanum. A Co – stantino Firinu il compito di raccontare Orazio e il soggiorno nella “vicina Trivici villa”. Pasquale Bonnì ripercorre la storia della chiesa dell’Assunta nella Rocchetta Sant’Antonio del ‘700 mentre Alfonso Cuoppolo scrive del pregevole Cappellone di Gesualdo. A ricostruire l’anno della peste, il 1656, è Antonino Salerno mentre Vincenzo Giangregorio consegna il racconto di una storia divenuta leggenda, il museo di Gaetano Di Vito, con la sua collezione di 5000 unità, nata come mostra permanente di cultura contadina, tra bandiere, mobili, vasi, aratri, bottiglie, da un confessionale in legno, risalente agli anni ‘30, del ‘900, a una medaglia a forma di croce risalente al ‘700. Angelo Russo ricostruisce la storia della famiglia Miele ad Andretta mentre Agostina Spagnuolo analizza il feudo di Guardia agli albori della eversione delle feudalità. Preziose anche le note storiche e topografiche sulla chiesa di Sant’Euplio a Pavia, il rapporto tra spionaggio e grande guerra con il caso di Ermengilda Graziani, ricostruito da Dora del Vecchio e il ritratto di Massimo Vitale di un eroe, il sottotenente Giuseppe D’Amato, nativo di Sant’Angelo dei Lombardi, morto in combattimento durante la prima guerra mondiale sull’altura del Podgora. Arruolatosi in fanteria, nella 205° Brigata Pistoia, al comando della 9° compagnia del 35° reggimento, cercò di espugnare il trincerone austriaco nel vallone dell’acqua. La loro ascesa fu fermata da una violenta raffica di fuoco. Ma D’Amato non si fermò se non quando fu investito da una bomba a mano. Solo dopo lunghe ricerche il nipote è riuscito a rintracciare il luogo dove riposta lo zio, il sacrario di Oslavia vicino Gorizia, riesumato dal cimitero di Uzza dove era stato sepolto.