Scanzi a Sant’Andrea: così questi uomini hanno cambiato l’Italia

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Ad accogliere Andrea Scanzi, sul terrazzo dell’anfiteatro di Sant’Andrea di Conza, è il vento fresco delle estati irpine, che fa muovere il telo dove saranno proiettati degli stralci di interviste o di apparizioni televisive, che riguardano i personaggi pubblici che il giornalista ha incontrato, e che hanno ispirato il suo libro “Sette più uno”, che sta portando in giro per l’Italia. E’ un entrare nell’interiorità delle persone che ha conosciuto, un delinearne i tratti, i caratteri, forse le sfumature, lasciando intatto quel mistero intangibile che è dentro di noi e che gli altri possono, qualche volta e in attimi fugaci, solo intravedere. Sono tutte figure che il giornalista definisce rivoluzionarie, per il modo di guardare la realtà, per il loro apporto artistico o umano, per la loro capacità di cambiarla, o di volerla cambiare. Il primo personaggio che presenta è Fabrizio De Andrè, un mito per intere generazioni, un poeta inquieto, quasi ossessionato dalla figura e dal mistero di Gesù, a cui ha dedicato molti dei suoi testi. De Andrè, il cantore e il poeta dei diversi, degli emarginati, degli sconfitti. «Fabrizio De Andrè, nell’ultimo periodo della sua vita – ribadisce Scanzi – parlava molto, a differenza degli esordi, quando era silenzioso. Come se presagisse che avesse poco tempo a disposizione. Raccontava molto di sé, interagiva con i propri interlocutori, ma quello che mi ha più colpito, e che lo rende un artista straordinario, era il suo rispetto ed amore per il suo pubblico. Brassens era il suo mito, un mito che il cantautore non ha mai voluto conoscere, per paura di rimanerne deluso. Ho incontrato Fabrizio nel 96, poco prima della sua scomparsa. Era proprio il periodo in cui amava raccontarsi, parlare di sé. Di quell’incontro, ricordo tre grandi insegnamenti. In primis, la voglia di raccontarsi, non era più il personaggio spigoloso di inizio carriera, era come si riconciliasse con se stesso, poi, la necessità di essere profondamente esigente con se stesso, per rispetto al suo pubblico. Ricordo che non ha mai risposto alle mie domande per un’intervista, è questo il terzo punto, perché voleva essere sicuro che ogni parola scritta, fosse effettivamente stata detta da lui, per responsabilità verso il chi lo seguiva. Non propinava canzoni solo per non uscire di scena, scriveva e componeva le sue canzoni al momento giusto, e quando aveva davvero cose importanti da dire. Infatti, ogni suo disco, usciva con un intervallo di sei anni». Il secondo personaggio, è Don Andrea Gallo, il prete scomodo che ha fatto riflettere i potenti. Campeggia maestosa e quasi impertinente, la sua figura sul telo messo dal vento. «Per Don Gallo – afferma Scanzi – De Andrè aveva scritto il quinto vangelo. Questo prete è davvero stato un autentico rivoluzionario. Don Gallo andrà in direzione “ostinata e contraria”, relazionandosi alle figure più deboli della società. Il don, come lo chiamavano gli amici, era la realizzazione di ciò che De Andrè cantava. Se il cantautore genovese cantava i diversi, gli emarginati, i ribelli, i prigionieri, i carcerati e i dimenticati, e li idealizzava anche, poiché portatori di quella pietas che abbiamo dimenticato, don Gallo ci viveva. In lui sussisteva la totale adesione tra il personaggio mediatico e l’uomo che viveva a contatto con i diseredati, i poveri, gli esclusi, per salvarli, senza nessuna forma pietistica, ma con profonda ed umana empatia. Quando affermava che il quinto vangelo era quello scritto dal cantautore genovese, non era uno slogan, ma una verità che lui viveva. ». Straordinario ed intenso, anche il ritratto di Ivano Fossati, con le sue apparenti contraddizioni ed ambivalenze, dettate dalla sua sensibilità e dalla sua genialità. «La rivoluzione è la cifra distintiva di ogni sua azione. Artisticamente, era continuamente mosso dall’idea di creare qualcosa di nuovo, quasi strappando la pagina di ciò che aveva creato prima. Ogni disco è differente da quello precedente. In questo, è profondamente rivoluzionario, ma è quasi eroico quando avverte che l’esigenza più profonda e più urgente, non è più quella di scrivere, creare, comporre, ma di vivere il proprio privato. Ed è un atto d’amore profondo per il suo pubblico, quello che lo farà ritirare dalle scene, quasi obbedendo ad una sua esigenza interiore»

Vera Mocella