Scrittura sociale

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1853

Di Monia Gaita

L’Irpinia, gli ombrelli bassi e aperti dei noccioli,

l’anima che barcolla

e dondola tremante sulle spalle.

 

La lingua biforcuta delle nuvole

tra la promessa e la ripulsa,

mi suggerisce: vale la pena di partire.

 

Le agenzie del lavoro hanno l’alito cattivo

già dall’alba.

 

Lo so, dovrò lasciare questi campi,

trovarmi faccia a faccia col grigio dei palazzi

che spunta in pustole di sebo sulla pelle.

 

Dovrò difendermi dalle perfìdie della solitudine,

dagli spacchi nostalgici dei giorni di festa,

dal sopravvento di sentirmi alieno

dentro la mia casa.

 

Non sarò felice.

Nessun occhio umano mi vedrà piangere.

Giuro.

 

Metterò a dimora un piccolo riscatto d’esistenza

e porterò il broncio a ciò che non fui in grado

di salvare.

 

Nessuno si accorgerà del mèntore

che mi sorveglia da un incavo.

Dall’argine attempato delle aziende,

dal lobo più recente e anonimo di certe costruzioni

penderà la mia terra.

 

Avvolgerà le auto, i vetri, i marciapiedi

quell’assoluta radice che avanza

dalle ere.