Se l’onda nera minaccia i giornalisti 

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L’ ultimo episodio solo in ordine cronologico è “l’assalto” di un gruppo di Forza Nuova con fumogeni lanciati verso alcuni cronisti del quotidiano La Repubblica. L’intimidazione segue altri casi: la bandiera del Reich esposta in una caserma a Firenze, il saluto romano di un calciatore dilettante che segna contro il Marzabotto, il blitz di alcuni skinhead nella sede pro-migranti a Como e il giornalista Rai colpito ad Ostia. Non si possono derubricare queste scene a delle pagliacciate ma c’è qualcosa di più profondo che sta lacerando il nostro fragile tessuto sociale.
Il Presidente del Senato Grasso l’ha definita un’onda nera che monta dalle periferie delle grandi città. Questo sentimento non è nato all’improvviso ma è figlio in larga misura di una diffusa ignoranza e della crisi economica che attanaglia il paese da tempo. E anche adesso che i primi effetti della ripresa si cominciano ad intravedere cresce però il distacco tra le classi più ricche e il ceto medio. Insomma il dividendo sociale della ripresa economica non si è distribuito ma al contrario si è fermato l’ascensore sociale. E così secondo una recente ricerca del Censis l’87,3% degli italiani appartenenti al ceto popolare pensa che sia difficile salire nella scala sociale. Una inversione di tendenza preoccupante che si ripercuote negativamente nel rapporto con gli altri. Ci rinchiudiamo sempre di più nei nostri angusti recinti e cresce l’intolleranza. I numeri sono impietosi. Di conseguenza, spiegano al Censis, si rimarcano sempre più le distanze dagli altri: il 66,2% dei genitori italiani si dice contrario all’eventualità che la propria figlia sposi una persona di religione islamica e l’immigrazione evoca sentimenti negativi nel 59% degli italiani, con valori più alti quando si scende nella scala sociale: il 72% tra le casalinghe, il 71% tra i disoccupati, il 63% tra gli operai. Un paese incapace di immaginare un futuro e che dunque si aggrappa al presente. Un’Italia senza fiducia nella politica e che ha come mito il posto fisso. Quest’assenza di progettualità e di speranza si riproduce anche nell’Università. Siamo infatti penultimi in Europa per numero di laureati, con il 26,2% della popolazione di 30-34 anni, una situazione aggravata dalla forte spinta verso l’estero, che assorbe una buona quota di giovani qualificati. Infatti nel 2016 i trasferimenti dei cittadini italiani si sono triplicati rispetto al 2010. Quasi il 50% dei laureati italiani si dice pronto a trasferirsi all’estero anche perché, calcola il Censis, la retribuzione mensile netta di un laureato a un anno dalla laurea si aggira intorno a 1344 euro corrisposti per una assunzione nei confini nazionali ma arriva a 2.200 euro all’estero. Dunque un paese che vede fuggire i propri giovani cervelli senza nessuna possibilità di attrarre talenti dall’estero. E si allarga anche la forbice tra Nord e Sud. Si stanno spopolando infatti le grandi città del Mezzogiorno, a cominciare da Napoli, Palermo e Catania. Un quadro dunque a tinte fosche, una parte del paese rabbioso che costituisce la nuova Italia dei rancori . E così come ha scritto Ezio Mauro “il nemico naturale, simbolico, è naturalmente il migrante. Agendo contro di lui si raccolgono gli istinti, le inquietudini, le pulsioni profonde di una parte della popolazione resa più fragile dalla crisi e di un’altra parte indurita da una inedita gelosia del welfare. Questa predicazione istintiva contro i non-popoli, può trovare spazio in un nuovissimo egoismo del benessere, del lavoro e della salute pubblica, quando lo smarrimento della crisi porta a non volere dividere più nulla”. Con il rancore e la rabbia insomma sta svanendo anche la speranza in quest’Italia sofferente ed impaurita dove la crisi ha influito sulle generazioni e sulla vita di ognuno di noi.

di Andrea Covotta edito dal Quotidiano del Sud