Se ritorna il mal d’Africa

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Nel linguaggio comune il mal d’Africa si riferisce alla sensazione di nostalgia di chi ha visitato l’Africa e desidera tornarci. Nel nostro paese il mal d’Africa è una sensazione ricorrente, in passato legata ai postumi del retaggio coloniale, in tempi più recenti all’impegno nei contesti africani di missionari e cooperanti ed è stato anche celebrato in una canzone di Battiato del 1983, pubblicata nell’album Orizzonti perduti.  Nel tempo presente rischiamo un’altra ondata di mal d’Africa, questa volta, però priva di ogni aspetto romantico e sentimentale. Il mal d’Africa che sta ritornando è soltanto la coscienza infelice del rinnovato interventismo militare italiano in Africa, che passa attraverso gli sciagurati accordi di cooperazione militare con la Libia e l’impianto di due nuove missioni militari in Libia e nel Niger. Queste missioni sono state deliberate dal Consiglio dei ministri il 28 dicembre 2017, pochi minuti prima che il Presidente Mattarella decretasse lo scioglimento delle Camere, indicendo le nuove elezioni per il 4 marzo. Le Camere sciolte si sono riunite mercoledì scorso (17 gennaio) per deliberare in merito all’approvazione di tutte le missioni militari in atto ed in programma nei vari scacchieri del contesto internazionale. E’ interessante notare come scelte così impegnative sul piano della politica internazionale e pregiudizievoli per il futuro del nostro Paese siano state rimesse ad un Parlamento in prorogatio. A questa scelta di routine fa eco il silenzio delle principali forze politiche, in questo momento impegnate a scontrarsi su tutto…. eccetto che sulla politica!

Del resto è un’abitudine ormai inveterata di tutti gli esecutivi che si sono succeduti nel tempo quella di tenere celata all’opinione pubblica l’esistenza stessa delle scelte che vengono compiute sul piano della politica internazionale. Così, malgrado il chiaro divieto costituzionale della diplomazia segreta, si sono tenuti segreti una caterva di accordi internazionali con i quali si sono assunti impegni fortemente vincolanti per il nostro paese, come i trattati con i quali sono state concesse agli Stati Uniti  decine di basi militari, alcune delle quali ospitano anche uno stock di armi nucleari, sebbene l’Italia abbia aderito al Trattato di non proliferazione, che vieta il possesso di armi nucleari. Così tutte le scelte politiche che vengono compiute nel quadro della NATO non sono mai state discusse attraverso un dibattito trasparente che coinvolgesse l’opinione pubblica.   Così come non è stata discusso l’imminente lancio in sede europea della istituenda cooperazione strutturata permanente (Pesco) nel campo della difesa che impegnerà il nostro Paese ad un ulteriore incremento delle spese militari che, a differenza di quelle per lo Stato sociale, non sono sottoposte ai vincoli di bilancio. Lo stesso è capitato sulle nuove missioni militari. Alla Camera il relatore della Commissione affari esteri, l’on. Andrea Manciulli, ha propinato un minestrone mettendo dentro gli ingredienti della cooperazione, dell’impegno per i diritti umani, della cultura, del contrasto al traffico di esseri umani ed altre piacevolezze per nascondere perfettamente quello che andiamo a fare in Libia ed in Niger.   Soltanto l’on. Fratoianni è stato capace di guardare oltre la melassa governativa, osservando che queste due missioni si propongono di esternalizzare le frontiere senza neanche la dignità di fare i conti con quello che succede al di là del Mediterraneo.

Per un misterioso capriccio del fato, le scelte politiche più impegnative in Italia avvengono quando ci sono le condizioni di minima conoscibilità. Pochi ricordano come siamo entrati in guerra con la Jugoslavia. Il 9 ottobre 1998 il Governo Prodi fu sfiduciato alla Camera. Tre giorni dopo, il 12 ottobre, un comunicato di Palazzo Chigi informò che il Consiglio dei Ministri aveva deciso di autorizzare il rappresentante permanente dell’Italia presso il Consiglio Atlantico ad aderire al c.d. Activation order. “Di conseguenza – recitava il comunicato – l’Italia metterà a disposizione le proprie basi qualora risulterà necessario l’intervento militare da parte dell’Alleanza atlantica per fronteggiare la crisi del Kosovo”. Il giorno successivo, il 13 ottobre, il Segretario Generale della NATO, Solana, emanò l’activation order e conferì al Comandante militare (SACEUR), gen. Clark, il potere di ordinare attacchi armati contro la Repubblica federale Jugoslava: quel giorno la macchina da guerra della NATO accese (non solo in senso simbolico) i suoi motori: e fu la guerra.

Che forse non ci sarebbe stata se qualcuno avesse interpellato il popolo italiano.

di Domenico Gallo edito dal Quotidiano del Sud