Corriere dell'Irpinia

Sinibaldo Tino e i misteri di Portella

di Paolo Speranza

Conserva pressoché intatta la sua carica di attualità, e di lucida denuncia politica, il libro di Sinibaldo Tino sull’eccidio del Primo Maggio 1947 a Portella della Ginestra, in Sicilia, per mano della banda di Salvatore Giuliano, di cui l’intellettuale avellinese (avvocato e giornalista di rilievo nazionale nel dopoguerra) nel libro Cadono le ombre sulla Conca d’oro ci ha consegnato una partecipata e memorabile descrizione.

Eccone uno dei passi più significativi: “In quel giorno, sacro ovunque alla fratellanza ed al lavoro, in una piccola valle stretta fra due montagne. Kumeta e Pelevet, i contadini di Piana dei Greci, di S. Giuseppe Iato, di S. Cippirello, di tutta quella ristretta zona che è alle spalle della “Conca d’oro”, da più di mezzo secolo si adunano per celebrare il rito annuale. (…) Quando il sole è già alto raggiungono il pianoro, che della ginestra porta il nome per la larga e spontanea vegetazione del fiore in mezzo alle rocce dominanti la valle. (…) Non ad una manifestazione di fede o di partiti accorrono, ma ad una festa promessa, una festa che le conquiste, le aspirazioni, le prospettive più liete dei lavoratori auspica ed esalta, attraverso la parola di uno o più oratori, i cui accenti infuocati sono presto coperti es superati dai canti e dai tripudii. Quella mattina con i profumi del nascente maggio pareva scendere dai monti una luminosità più accesa e più viva. Quando già una folla di circa duemila persone è adunata intorno al vecchio rudimentale podio, costituito da uno sperone di roccia, improvvisamente si odono alcuni colpi secchi, poi brevi scoppi laceranti, poi rapide intense nutrite raffiche di mitra. I proiettili, fendendo l‘aria, piovono sulla folla inerme e sbigottita: scompiglio urla imprecazioni…La folla si dirada: molti scappano trascinando donne e bambini ai quali fanno scudo col proprio corpo (…) La folla, giuliva pacifica inerme, era stata bersaglio della più vile azione fratricida. Il fuoco intenso durò più di dieci minuti. Furono raccolti undici morti e cinquantasei feriti”.

Quella strage fu definita da Tino “il delitto del secolo” per la sua efferata e gratuita ferocia, mai eguagliata nella storia dell’Italia repubblicana neppure dagli attentati mafiosi o dal terrorismo di estrema destra (Piazza Fontana, treno Italicum, Stazione di Bologna) durante la “strategia della tensione” nei primi anni Settanta e fino all’inizio del decennio successivo: “perché nessun legislatore aveva mai preso in considerazione la ipotesi della esecuzione di una vera e propria operazione bellica, da parte di un esercito di malfattori, contro una folla di individui di ogni età e di ogni sesso, pacifica ed inerme, inconsapevole e lieta, umile ed irresponsabile, adunata per giunta in occasione della celebrazione di un rito civile universalmente accettato e riconosciuto”, scrive in Cadono le ombre  sulla Conca d’oro l’avvocato avellinese, prestigiosa figura di antifascista di cui ha tracciato un puntuale profilo su questo giornale Fiorenzo Iannino il 13 novembre 2013 (oggi disponibile su corriereirpinia.it).

Il libro, oggi rarissimo (tanto che l’Archivio ArCCo ne progetta la ristampa), fu pubblicato dalla casa editrice Lapi di Città di Castello nel giugno del ’52, a poco più di un mese dalla sentenza dei giudici del tribunale di Viterbo, che il 5 maggio, dopo quattordici mesi di dibattimento, aveva concluso il processo per la strage di Portella comminando numerosi ergastoli ad esponenti della banda Giuliano ma lasciando aperti altrettanti interrogativi e “un vuoto allarmante – commentò Tino, che in quel processo era uno degli avvocati di parte civile per le famiglie delle vittime – per cui tuttora aperte e sanguinanti restano le numerose piaghe dell’isola”.

Praticamente un instant-book, ma al tempo stesso assai approfondito, nel quale Tino inquadra l’evento della strage nel più ampio contesto storico e sociale, analizzando le specifiche condizioni dell’isola nell’ambito della più complessiva “questione meridionale”. A questo quadro d’insieme dedica i primi due capitoli, “Esperienze” e “Un ambiente”, che conservano una oggettiva pregnanza sebbene l’attenzione del lettore si rivolga inevitabilmente ai due capitoli successivi (“Un delitto” e “Un processo”), resi vivi e pulsanti dalla passione civile dell’autore e dal ruolo di primo piano svolto nella vicenda giudiziaria, che gli consentì di assumere quella ricca e preziosa documentazione di cui nel libro è proposta nelle note un significativo exemplum.

In questo agile pamphlet risalta compiutamente il multiforme ingegno di Sinibaldo Tino: acuto osservatore della realtà, come nell’originale lettura parallela dei fatti di Portella e del celebre processo Cuocolo di inizio ‘900 a Napoli; storico lucido e attento, soprattutto nelle pagine dedicate alla tragica eredità del Fascismo nel Sud ed alla debolezza della neonata Repubblica; militante appassionato dell’ideale democratico, che lo induce a coniugare la sua formazione liberale con l’apertura alle istanze sociali dell’area marxista, di cui dà prova nella puntuale analisi del problema della terra in Sicilia come origine del conflitto insanabile tra il comunismo e la mafia, manovrata dai latifondisti e da quei poteri occulti (a Palermo, a Roma, anche a Washington) che curarono la “regia” della strage di Portella della Ginestra e dell’uccisione di decine di sindacalisti e militanti della Cgil, del Psi e del Pci; e intellettuale engagè (ma tutt’altro che radical chic), che in uno dei passi più significativi del libro sottolinea con rammarico l’assenza dei media e degli intellettuali rispetto al processo di Viterbo. E, più di tutto, in Cadono le ombre sulla conca d’oro emerge il giornalista brillante, ottimamente documentato e narratore dallo stile fluido e avvincente, come nel dettagliato profilo di Salvatore Giuliano, tanto più attendibile e coraggioso in quegli anni di deformazione più o meno strumentale della figura del bandito – con echi recenti anche nel cinema: il falso e patinato Il Siciliano di Michael Cimino – ad opera di alcuni cantastorie (un eroe popolare anziché un fuorilegge spietato), dei rotocalchi (il “bandito gentiluomo”, di cui una reporter svedese finì addirittura per innamorarsi) e soprattutto del Governo dell’epoca, determinato a presentarlo come un “cane sciolto”, una scheggia impazzita piuttosto che come una pedina della mafia, degli agrari, del movimento separatista e di tutte quelle forze che volevano impedire ad ogni costo la redistribuzione delle terre e l’emancipazione dei ceti più umili e dei lavoratori delle campagne.

L’analisi di Tino, e le sue intuizioni quasi profetiche (di cui diede ulteriore prova nel ’54, in un articolo su “Cronache Meridionali” dopo l’avvelenamento in carcere del luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta), sarebbero state di grande aiuto a governi concretamente disposti a combattere mafia e poteri occulti.

Oggi possiamo leggerle come una testimonianza lungimirante, che nel ricordo solenne di quel Primo Maggio di sangue ci impegna a ripartire dai fatti di Portella della Ginestra per un’Italia che valorizzi e tuteli il Sud, la legalità, il diritto al lavoro.

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