Sotto le macerie del populismo

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Non c’è bisogno di aspettare la conclusione della legislatura per prendere atto della fine di un ciclo politico semplicisticamente definibile populista, che ha avuto caratteristiche peculiari nei Paesi nei quali si è manifestato con successo, e che in Italia  ha coinciso  con l’affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle alle politiche del 2018, quando risultò primo nei consensi tanto da poter comporre tuttora, nonostante molte defezioni ed espulsioni, il più consistente gruppo parlamentare nelle due Camere. Il tratto comune alle diverse manifestazioni della ventata populista che ha percorso le democrazie occidentali negli ultimi anni è la contestazione delle classi dirigenti e in generale dell’establishment consolidato nei diversi Paesi: fu così con la Brexit nel Regno Unito, che vide la rivolta delle periferie contro Londra, con Donald Trump che negli Stati Uniti si impose prima sulla dirigenza repubblicana e poi sulla candidata democratica espressione di una élite stabile e duratura, con Bolsonaro in Brasile, Modi in India, Iglesias in Spagna e così via. Storie molto diverse l’una dall’altra, ma con tratti comuni; vicende ancora in corso in alcuni casi, parabole concluse in altri.

In Italia l’ascesa del populismo non inizia, come comunemente si ritiene, con le politiche del 2018, ma qualche anno prima, con le elezioni parlamentari del 2013 e le europee dell’anno successivo; mentre è legittimo far coincidere la presa di potere del movimento grillino con le amministrative del 2016, quando vennero conquistati di municipi di Torino e Roma, la prima e l’attuale capitale d’Italia. In entrambi i casi le due sindache plebiscitate dagli elettori descrissero il loro successo non solo come la vittoria del nuovo sul vecchio, ma soprattutto come l’affermazione di una rinnovata moralità contro la degenerazione delle classi dirigenti sconfitte, decadute e delegittimate. Ora, la triste fine della parabola populista allora cominciata, che prescinde dal risultato che i 5 Stelle potranno ottenere alle prossime elezioni generali, è certificata dall’autocritica che le due sindache hanno fatto in questi giorni proprio rispetto alla rivendicata cifra del loro avvento alla guida delle città, intesa come un’affermazione di superiorità etico-politica prima ancora che elettorale. Ma oggi, quando le due amministrazioni vanno in scadenza presentando bilanci (non solo contabili) in rosso spinto, ecco che la resipiscenza tenta di recuperare una qualche credibilità prendendo le distanze da quei drastici e arbitrari giudizi. E così sentiamo la sindaca uscente di Torino scusarsi con il segretario del Pd di allora, maltrattato dai capi dei Cinque Stelle in una memorabile diretta streaming (“Lei ha pagato il prezzo delle nostre ingenuità e immaturità iniziali”), e Virginia Raggi pentirsi per il sarcasmo con cui aveva promesso al sindaco di Roma Marino portargli le arance a Regina Coeli. Il fatto che è la vittoria dei grillini, nel 2016 e successivamente, molto deve a quelle esternazioni mediatiche che nascondevano l’incapacità di misurarsi seriamente con le responsabilità del governo.

Certo, oggi il ripudio del giacobinismo delle origini risponde anche alla necessità di ingraziarsi i nemici di allora, divenuti indispensabili alleati di oggi e di domani; ma allora bisogna dire che l’icona più convincente della parabola ieri populista e oggi governista è quella di Luigi Di Maio, vera salamandra del potere, passato indenne da Salvini, a Conte, a Draghi e poi chissà.

di Guido Bossa