Storie di foibe e di infoibati

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In occasione dell’istituzione della “Giornata del Ricordo” delle foibe e dell’esodo dei circa diecimila istriani scacciati dalle loro terre, abbiamo letto tutta una serie di dichiarazioni, trasmissioni televisive e radiofoniche, interventi sulla stampa e dibattiti politici, con l’intento di fare piena luce su un problema intenzionalmente ignorato per troppi lunghissimi anni.

Analogo discorso andrebbe fatto sul reale numero delle vittime. Ricordo, nel 2004, che l’On. Fassino parlava di 2000 infoibati, mentre l’allora Ministro dell’Informazione On. Gasparre riteneva che le vittime fossero addirittura milioni. Propaganda politica! Ricordiamo che già nella primavera del 2002 il Presidente Ciampi andò a Trieste per sostenere che le foibe rappresentavano un esempio di “pulizia etnica”, focalizzate a cancellare la presenza italiana in Istria, in Dalmazia e in tutta quell’area circostante oggi chiamata Venezia Giulia.

Ma come stanno oggi le cose? Non bene. Però, il recente viaggio in Friuli mi ha dato l’occasione di approfondire due eventi della storia recente a cui, almeno dalle nostre parti, si preferisce dare spazio solo quando si è prossimi alle ricorrenze. Chi ci segue si ricorderà che in altre occasioni abbiamo proposto l’annoso problema dei campi di concentramento fascisti realizzati nella Venezia Giulia. Oggi dunque parliamo di foibe. Parliamo cioè di un ulteriore genocidio, questo della pulizia etnica attuata dall’esercito italiano durante l’occupazione della Slovenia, della Dalmazia, dell’Istria. Ma come stanno le cose, quelle che tutt’oggi non si dicono. Lo studioso Giacomo Scotti scrive di interi paesi rasi al suolo, di 11606 internati civili sloveni e croati morti nei lager italiani tra il 1941 ed il 1943 che, secondo le direttive emanate dall’allora generale Gastone Gambara, furono lasciati morire d’inedia e malattie varie. Il resto è storia. Dopo l’8 settembre 1943 la Venezia Giulia, parte del Friuli e la provincia di Camaro (Fiume) furono occupate dall’esercito germanico ed annesse al Reich col nome di Adriatisches Kustenland (Litorale Adriatico). Contemporaneamente abbiamo i partigiani di Tito ed i primi scontri tra civili armati ed il nostro esercito dichiarato invasore.

Le prime ritorsioni. Antun Giron, partigiano nonché storico di Fiume, nel 1945, cioè a distanza di due anni dal suo ritorno da un campo di concentramento nel Friuli, scriveva: All’inizio a nessun italiano è stato fatto nulla di male. I partigiani avevano diramato l’ordine che non doveva essere fatto del male a nessuno. Ma qualche giorno dopo lo scoppio della rivolta popolare, alcuni corrieri a bordo di motociclette sidecar hanno portato la notizia che i fascisti di Albona avevano chiamato e fatto venire da Pola i tedeschi in loro aiuto e questi avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Poco dopo si è saputo che i tedeschi erano stati chiamati in aiuto anche dai fascisti di Canfanaro, Sanvincenti e Parendo, fornendogli informazioni sui partigiani (…) Pertanto partigiani e contadini hanno cominciato ad arrestare ed imprigionare i fascisti (…) i partigiano decisero di fucilarne solo alcuni, i peggiori. Purtroppo quando, alcuni giorni più tardi, cominciarono ad avanzare i reparti germanici, i partigiani vennero a trovarsi nell’impaccio, non sapendo dove trasferire i prigionieri fascisti per non farli cadere nelle mani dei tedeschi. In questo imbarazzo hanno deciso di ammazzarli. Ne hanno uccisi circa 200 gettando i corpi nelle foibe.

Sostanzialmente siamo davanti alla prima tragica testimonianza di un partigiano di Tito. Particolarmente gravi ci sono sembrate le dichiarazioni fatte a suo tempo da Fausto Bertinotti che, in assenza di una reale conoscenza storica della materia, ebbe a dichiarare, riprendendo le tesi di due noti storici, anch’essi dichiarati comunisti, Pupo e Spazzali, che bisognava condannare questo modo di fare informazione, ritenendolo nocivo in particolar modo sotto l’aspetto politico. La realtà è che a partire dal 1945 la sinistra sapeva e ha taciuto.

 

La pulizia etnica jugoslava del 1945

Dopo la battaglia di Basovizza del 30 aprile 1945, la gente del posto gettò in una foiba detta “Pozzo della Miniera” un imprecisato numero di soldati italiani e civili. Il 1 maggio 1945 a Trieste e a Gorizia si insediò il potere popolare controllato dall’Esercito di Liberazione Jugoslavo, seguirono 40 giorni di inauditi massacri e vendette personali retroattive.

Molti dei militari arrestati nelle zone di Trieste e Gorizia furono internati nei campi di lavoro di Borovnica, a qualche chilometro da Lubiana. Sappiamo che in questo campo furono internati i bersaglieri del battaglione “Mussolini”, catturati nella zona di Tolmino, e alcuni corpi appartenenti alla Guardia di Finanza, Polizia di Stato, Carabinieri, militari della X.ma Mas, ed altri. Circa 4500. Alcuni di loro, una volta riconosciuti essere gli esecutori dei vari rastrellamenti effettuati dal 1941 al 1943, furono immediatamente fucilati. In gran numero furono lasciati morire di tifo e di stenti.

Testimonianze di prima mano

Le foibe esplorate e censite sarebbero più di 60. La voragine nota come Foiba di Basovizza è in realtà il pozzo di una vecchia miniera abbandonata. Sui massacri avvenuti a Basovizza, tra il 2 e il 5 maggio 1945, vi è una nota del successivo 14 giugno del Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste, inviato alle autorità angloamericane appena insediatisi. Si legge in questa nota: Nelle giornate del 2-3-4- e 5 maggio numerose centinaia di cittadini vennero trasportate al cosiddetto POZZO DELLA MINIERA, in località presso BASOVIZZA, e fatti precipitare nell’abisso profondo circa 240 mt. Su questi disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli.

Il 29 giugno, apparve su Risorgimento Liberale la seguente notizia: Grande e penosa impressione ha destato in tutta l’America la notizia, proveniente da Basovizza presso Trieste, circa il massacro di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito.

Scrive, tra l’altro, don Flaminio Rocchi, nel suo libro di memorie: L’esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, 1971. Dal primo maggio al 15 giugno 1945 sono state gettate in questa voragine 2.500 tra civili, carabinieri, finanzieri e militari italiani, tedeschi e neozelandesi…”, a riprova che non tutta la verità era stata fatta emergere. Molte vittime, continua don Rocchi, erano prima spogliate e seviziate. E’ da notare che tra le vittime risultano moltissime donne e bambini. A volte intere famiglie, come il caso della postina di Sant’Antonio in Bosco, Pettirossi Andreina, che venne precipitata nella foiba insieme al marito ed alla figlioletta di due anni…

Ma c’è anche chi da quelle viscere riuscì ad uscire vivo. Racconterà in un libro Giovanni Radeticchio, di Sirano. “…mi appesero un grosso masso, del peso di circa 10 kg, per mezzo di filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere altri miei compagni e dietro ad ognuno sparavano colpi di mitra. Dopo l’ultima vittima gettarono una bomba a mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non reggevo più. Sono uscito a rompere il filo di ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella foiba per un paio di ore. Poi col favore della notte, uscii da quella che doveva essere la mia tomba…

Molte sono le testimonianze che ci consentono di capire le reali difficoltà di quei giorni terribili. Claudia Cernigoi in “Operazione foibe” racconta tra l’altro di Giuseppe Cernecca, che, di ritorno da un viaggio a Trieste, fu arrestato da tre slavi mentre stava cenando in una osteria di Cittanova. Fu portato al comando, interrogato, bastonato, e non comprendeva il perché di tutto ciò. Lo trasportarono a Cimino. Dove aveva sede il quartiere generale del temutissimo braccio destro di Tito, tal Ivan Motika, e da questi condannato a morte. In una cella accanto ritrovò, per poche ore, la sorella con quattro suoi ragazzi… Il mattino seguente fu lapidato e gettato in una fossa.

In ordine al pietoso recupero delle salme nelle zone della Venezia Giulia rimasta all’Italia, anche in relazione al fatto che due tra le più grandi foibe: quella di Basovizza e di Monrupino, contenenti migliaia di cadaveri, furono rozzamente tappate apponendovi un solaio di cemento. L’allora Ministro della Difesa, On. Giulio Andreotti, incalzato dalla stampa nazionale ed estera si espresse in questi termini: La chiusura è del tutto provvisoria. Essa è costituita da lastre di cemento poggiate su travi di ferro e munite di anelloni per il loro sollevamento. La chiusura non preclude quindi la possibilità del recupero delle salme giacenti nel fondo del pozzo, recupero che sarà effettuato quando sarà possibile superare le molteplici e serie difficoltà di ordine igienico e di sicurezza.  Un decreto del Presidente della Repubblica, Luigi Scalfaro, datato 11 settembre 1992, dichiarò la foiba di Basovizza monumento nazionale.

Altra foiba tristemente nota è quella di Plutone. Altra voragine che si apre sul Carso triestino, sulla strada che porta a Gropada. Segue la grotta di Sath, che si trova a circa 500 metri da Basovizza, sempre sul Carso, lungo la strada per il paese di Jezero. Anche in questa grotta furono scoperti un gran numero di corpi marcescenti di soldati italiani e civili. Anche qui, pur di nascondere ogni traccia, i partigiani di Tito vi gettarono esplosivo e nitroglicerina.

Tra queste poche citazioni meriterebbero il giusto spazio quelle di tante altre persone scomparse od uccise a Trieste ed a Gorizia nel periodo dei tragici 40 giorni di amministrazione jugoslava o perché arrestate in base a denunce di privati cittadini, ritenutisi vittime del precedente governo fascista.

I processi

Quello di Trieste, il più importante, si aprì il 3 gennaio 1948. In seguito furono istituiti decine di altri processi tutti per foibe. Viceversa quello altrettanto triste di San Sabba andò in aula solo nel 1976. Molti conobbero il carcere; altri, per aver fatto perdere ogni traccia, furono condannati in contumacia. Per alcuni di questi fece seguito l’amnistia, concessa dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Una polemica infinita

L’attuale  Presidente della Repubblica, Napolitano, ha di recente accusato un poco tutti di aver tenuto nascosta la verità alla Nazione; tale presa di posizione, per quanto si è potuto leggere sulla stampa, sembra sia stata mal digerita dal collega Presidente croato, Mesic. Come è possibile? Stando a Gorizia ho avuto il piacere di discorrere con il Generale di Brigata, Sabatino Aufiero, nativo di Avellino, fratello della prof.ssa e scrittrice Gaetana Aufiero, il quale, riguardo l’aspetto foibe, mi confermava che tutto è nato nel 1943 quando – ormai era chiaro che la guerra era persa – Tito, avuto l’appoggio di Togliatti, fece pressione per annettersi tutta la Venezia Giulia; al seguito poi della rottura con Mosca, l’allora segretario del PCI italiano scelse apertamente di stare al fianco di Stalin, non solo inimicandosi Tito quanto condannando tanti nostri soldati a rimanere prigionieri in Russia, e tutti quei comunisti italiani che erano andati in Jugoslavia a lavorare per una causa che credevano giusta, cioè per la ripresa economica in particolar modo di Pola e di Fiume. Altra chiave di lettura che spiega la vendetta cieca degli Slavi, tesa a colpire tutto quello che era italiano, anche per creare, come del resto abbiamo visto nell’ultimo conflitto balcanico, un regime di stragi e di terrore mirato a far migrare, come poi è successo, intere popolazioni.

Una lezione di vita

Molti sono gli intellettuali che hanno preso le distanze dai politici di sinistra e di destra. I primi avevano cercato di imbavagliare una realtà scomoda, mentre i secondi avevano cercato in tutti i modi di ingigantirla. Questo atteggiamento degli intellettuali è un bene per la storia dell’uomo. Tuttavia la strada è ancora lunga in quanto troppi lati oscuri sono circonfusi da una palpabile ipocrisia. Questo spiega il clima sospettoso delle varie etnie presenti in quell’area: la tensione che si respira in quelle aree ci suggerisce di dire che la strada è ancora lunga. Oggi abbiamo una Legge dello Stato che ha riconosciuto il 10 febbraio come il Giorno della Memoria; un primo passo verso il definitivo riconoscimento di responsabilità di una politica post-comunista sbagliata in quanto priva di ogni fondamento storico-politico ed umano.

Una lezione che vale per tutti. Quando l’umanità si lascia trascinare dalla febbre del potere, dalla voglia di primeggiare e di prevaricare sull’altro, quando ci si lascia andare alla violenza cieca, allora questa finisce sempre per generare altra violenza. Un continuo per dire che chi crede di doversi difendere con la violenza, altra violenza si deve pure aspettare. Chiudo col prendere in prestito un pensiero di Brecht, che recita più o meno così: “…impari l’uomo; però, prima impari ad essere di aiuto all’uomo”.

Ottaviano De Biase