Tra autonomia e orgoglio 

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E’ un azzardo. O forse no. Neanche una provocazione. L’autonomia regionale, della quale si discute animatamente in queste ore, potrebbe dare orgoglio al Sud d’Italia. Sarebbe sufficiente, a mio avviso, un cambio di mentalità e un diverso ruolo della classe dirigente meridionale. Solo così si potrebbe dare avvio ad un nuovo protagonismo, rendendo il Sud testimone di una nuova ed esaltante stagione. Mi spiego. Non v’è dubbio che nei decenni più recenti nei confronti del Mezzogiorno si è registrato un calo di tensione della politica e della società. La rappresentanza politica meridionale ha quasi sempre tradito il suo mandato di rappresentanza, privilegiando un modello localistico e non un’azione nazionale per una giusta ricollocazione del Sud nel Paese. La società civile si è, invece, adagiata, salvo rare eccezioni, nell’eterna attesa di un riscatto predicato e non attuato. Evidente il risultato: mancata crescita economica, crollo dell’occupazione, spopolamento delle zone interne, trasferimento delle maggiori aziende di credito dal Sud verso il Nord, lotta ad intermittenza per la legalità contro la corruzione e i poteri criminali. Messi insieme questi fattori hanno accentuato il divario nor-sud, spostando le risorse dal Mezzogiorno nelle regioni economicamente più avanzate, tra cui Lombardia, Veneto ed Emilia, le stesse che, nel tempo, sono cresciute anche grazie alla grande emigrazione del passato, che ancora oggi dissangua il Mezzogiorno. Si tratta, come dimostrano le statistiche, delle stesse regioni che oggi, esasperando i principi costituzionali, tra cui quello della solidarietà, pretendono la gestione autonoma di alcuni settori della vita sociale. Considerata dal punto di vista politico la questione altro non è che un patto scellerato tra la Lega di Salvini e il Movimento 5 stelle di Di Maio.
Come dire: l’autonomia regionale al nord, il reddito di cittadinanza al Sud. In soldoni: più egoismo e impegno economico nordista, più assistenzialismo al meridione. Difficile dimostrare il contrario. In realtà al Mezzogiorno, con le riforme in atto, viene assicurato un contributo alla povertà, peraltro non ben definito nelle modalità, ben lontano dalla crescita occupazionale e dal bisogno di infrastrutture, per le quali ha grande fame. Sull’argomento, a dire il vero, in queste ore si scrive di tutto e nei termini più diversi. Prevale, nella sostanza, la rivendicazione delle parole e delle emozioni. Quella stessa che ha accompagnato il meridionalismo piagnone di una letteratura strappacuore degli inizi del secolo scorso. L’analisi, tuttavia, non tiene conto del ruolo che la classe dirigente meridionale è chiamata a svolgere. Perchè è proprio qui la radice del male. Ed è da questo che bisogna ripartire. Allora se l’autonomia delle regioni del Nord diventa una forma strisciante di secessione, occorre contrapporre ad essa una volontà meridionale che sappia coniugare risorse locali e vocazioni territoriale, innovazione e sguardo attento all’Europa e al Mediterraneo. Questo dovrebbe essere il compito di una classe dirigente, non leva dei morti, protagonista del proprio futuro. Senza più lamentele, ma capace di rimboccarsi le maniche per ritrovare l’orgoglio perduto.

di Ganni Festa