Trasparenza? Il governo dei tradimenti

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Nella storia politica mondiale, in questo caso della Russia, verso la metà degli anni ‘80 ci furono due popolarissime parole, “glasnost e perestrojka”, che forse molti giovani di oggi non conoscono anche se le hanno sentite in più di un discorso, decisive nel crollo e nel tramonto dell’Unione Sovietica. La prima significò “trasparenza”: non nascondere le difficoltà, discuterle liberamente alla luce del sole e con critica stringente. La seconda, invece, auspicò la ricostruzione di natura riformista e progettuale, anche nei criteri selettivi degli apparati di Partito. Tutto questo caratterizzò la “rivoluzionaria” stagione di Gorbaciov, la cui “svolta democratica” cambiò radicalmente la vita di un popolo o meglio di tanti popoli, con conseguenze epocali. Le due parole fecero talmente presa da diventare poi addirittura di uso e abuso molto correnti in Occidente. I successivi nascenti movimenti di ogni “ismo” le adottarono, fissandole con vernice spray sui muri come un universale monito minaccioso. Un retaggio, divenuto nel tempo la radice anche del “vaffa” araldico della nebulosa populista. Appena però il populismo ha assaggiato l’ebbrezza del potere, tutta quest’en – fasi salvifica è finita nel dimenticatoio. Addio trasparenza. Lo prova oggi in maniera molto netta il governo “giallo- verde” delle “permanenti riserve mentali”, che dice una cosa e ne pensa un’altra o delle “reticenze parallele”, molto gravi nella settimana in corso, cruciale per una serie di risposte da dare e poi da avere sul futuro del Paese. Mentre pende la spada di Damocle della procedura di infrazione da parte dell’Europa per i nostri conti dissestati, da Palazzo Chigi e dintorni non è arrivato un solo segnale, rassicurante, univoco, articolato su come si intenda fronteggiare con ragionevolezza l’ ennesimo momento critico. Solo sorrisi e parole mozzicate di Tria da tipica navigazione a vista con innanzi uno “scoglio deficit” prossimo ai 2400 miliardi. E così quella trasparenza, un tempo pretesa da altri come un “precetto ineludibile ”, ora è diventata indigesta al solo evocarla. Una condotta, che suscita un senso di fastidio, ricordando gli sberleffi del “popolo viola”, dei girotondi, di cui oggi gli “epigoni”, figli, nipoti e affini al potere, non vogliono conservare alcuna memoria essendo scomoda e “disturbante”. Stesso discorso vale ancora di più per l’altro campione di “glasnost istituzionale” Salvini, sempre pronto a esibirla dovunque si trovi su “un cornicione ministeriale” o di una pizza “Quattro stagioni”, alla cloche di una ruspa o da “Vacanze romane” nella “Roma ladrona” tra Pantheon, Via del Vicario, con amori da “Tempo delle mele”, ora però fuoriclasse delle “verità dimezzate”. Sempre più provocatorie in queste ore come ospite alla corte di Trump, non certo per un “cine panettone” di Natale ma per concordare le mosse di geopolitica mondiale, in cui svetta il Presidente degli Stati Uniti su posizioni antieuropeiste, verrebbe da dire più oltranziste del Monroe, l’irriducibile teorizzatore ottocentesco della dottrina “dell’America agli Americani ”. Non si comprende con quale senso di responsabilità da parte di un vicepremier di un governo che, in contemporanea, chiede clemenza all’Europa. Fino a qualche tempo fa si pensava che alcune superficialità dipendessero da sprovvedutezza. Oggi non ci sono più dubbi. Tali comportamenti, invece, paiono sempre più ascrivibili a trame, progetti avventurosi, che andrebbero discussi subito nelle sedi istituzionali giuste, senza “nascondimenti” o stillicidi informativi. Intanto questo stato di cose preoccupa ancora di più in presenza del vuoto totale del Parlamento, che l’art. 61 della Costituzione pone “come la massima espressione della rappresentanza democratica della volontà popolare tramite elezioni”. Quando si ipotizza nei fatti la sua interruzione, si immagina la fine della democrazia non la modificazione. Oggi ciò va ricordato a chiare lettere e senza timori.

di Aldo De Francesco