Un anno senza Diego

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E’ passato un anno, un anno senza Diego. La morte di un campione, che ha accompagnato una generazione che lo ha visto giocare e un’altra che ne ha visto i suoi incredibili gol, è una traccia indelebile da cancellare. Giudicare e guardare a Maradona solo come un calciatore è riduttivo. Lo si può fare per campioni italiani e non che si sono consegnati alla storia di questo sport ma Diego è stato qualcosa di diverso. Un simbolo di riscatto per il nostro mezzogiorno con la vittoria di due scudetti al Napoli, che da allora non ha più vinto il campionato, fino all’Argentina pronta a liberarsi grazie a lui dell’onta subita nelle Falkland dagli inglesi. Mario Sconcerti ha scritto che “attraverso il calcio guidava la gente a riscattarsi, che dentro di sé non tollerava regole ma le portava agli altri. Era un sole dell’avvenire prosaico ma reale. Ha portato felicità concreta sbattendo Napoli in faccia all’Italia, ne ha descritto la grandezza moderna, l’ha scossa dalla sua distrazione e rimessa al centro del mondo. Maradona non è un eroe positivo né ha mai voluto esserlo. Credo si sia sempre sentito un martire della sua diversità, il mondo era cattivo perché la rifiutava, perché lui era eccessivo, melodrammatico, esagerato da sopportare. Viveva in mezzo a una corte di amici che lo aiutava a farsi re, una corte fraterna e golosa, fra concubine e cocaina. Poi alle prime luci dell’alba le prostitute di strada lo vedevano arrivare malinconico, meditando sui suoi errori. Gli si mettevano intorno e lo ascoltavano, dicono che si commuovesse”. Un uomo e un campione che è andato oltre i suoi gol, oltre le sue incredibili abilità calcistiche, un talento difficile da incasellare anche in campo. Capace di muoversi su tutto il fronte d’attacco, bravissimo a mandare in porta uno dei suoi compagni, inventando passaggi in spazi angusti e impossibili per chiunque. Un solista in uno sport che deve ovviamente essere di squadra. Lui era una squadra. Ha vinto i mondiali con l’Argentina nel 1986, una nazionale con tanti punti deboli che lui ha letteralmente trascinato fino al traguardo finale. Molti campioni hanno vinto di più a partire dal fantastico Pelè, ma nessuno è entrato nel cuore della gente come Maradona. Cruyff ha cambiato con l’Ajax e con l’Olanda il modo di giocare da squadra ma Diego ha incantato gli stadi di tutto il mondo. Il suo gol all’Inghilterra resta forse il più bello di sempre ed è arrivato dopo aver segnato un’altra rete con la mano. La parabola perfetta dei suoi eccessi. Grande giocatore e uomo dai mille vizi, due facce della stessa medaglia. E non sembri un paradosso fare un parallelo con un altro grande “dieci” che ci ha lasciato il 30 novembre del 2007: Adriano Lombardi. Il capitano dell’Avellino nel primo magico anno di serie A. Due calciatori ovviamente diversi per capacità e stili di vita, che però hanno lasciato una tale impronta che sia a Napoli che ad Avellino, oggi i due stadi sono dedicati a loro. Lombardi è stato il simbolo di una “piccola” città di provincia che ha saputo sfidare e a volte battere i grandi squadroni del Nord. Non si sono mai affrontati direttamente ma il calcio sa unire passioni e storie ed ha un linguaggio universale. I colpi magici di Maradona e la caparbietà di Lombardi fanno parte della stessa narrazione e ci raccontano di un calcio che non c’è più e che nostalgicamente ci riporta indietro nel tempo perché come ha scritto un grande poeta come Eugenio Montale “dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello della sua stessa infanzia”.

di Andrea Covotta