Un governo tecnico testimonia il fallimento della classe politica

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Di Matteo Galasso

Nella giornata di ieri il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha convocato al Quirinale il Professore Mario Draghi, ex Presidente della Banca Centrale Europea, al fine di conferirgli l’incarico di formare un governo tecnico-istituzionale, di larghe maggioranze e alto profilo, non identificato con alcuna formula politica.

Il Capo dello Stato ha considerato questa ipotesi dopo che il mandato esplorativo conferito al Presidente della Camera, Roberto Fico, che aveva ricevuto l’incarico di trovare una nuova maggioranza partendo dalle forze che sostenevano quella precedente, è fallito. La decisione è quindi stata rimessa al Capo dello Stato, che si è trovato a scegliere tra le elezioni anticipate, che potrebbero portare via anche cinque mesi prima di raggiungere un nuovo accordo di governo –opzione imprudente considerando che  proprio i prossimi mesi saranno cruciali per la gestione dei fondi europei e della crisi sanitaria –oppure di conferire l’incarico a un tecnico competente ed autorevole, come Mario Draghi, cui ora il compito di raccogliere la fiducia in Parlamento per sciogliere la riserva e giurare insieme ai suoi ministri.

Mattarella, deluso come tutti gli italiani, dalle liti tra i partiti di maggioranza ed opposizione che, di fatto, non hanno nulla a che vedere con gli interessi reali del Paese, a maggior ragione in un momento come questo, ci ha ricordato la gravità della crisi che stiamo vivendo, nonostante la quale le forze politiche non siano riuscite a mettere da parte le divergenze per giungere a un nuovo accordo: è di fatto una sconfitta per la classe politica, che si è dimostrata legata più alle vecchie logiche di spartizione del potere piuttosto che garantire sicurezza, tutela e stabilità ai cittadini. Chiaramente, optare per un governo tecnico e quindi in sintesi rinunciare temporaneamente da un’influenza politica sull’esecutivo non è stata una scelta facile, ma, al contrario, dettata dalla necessità e da importanti scadenze.

Quella del “tecnico” è stata una strada che il Capo dello Stato ha sempre cercato di evitare durante il suo mandato e che si può interpretare, anche in questa circostanza, come una scelta necessaria, ma presa a malincuore. La cosa certa è che – a prescindere dall’esito dell’operato di Draghi – non c’è nulla di cui esultare: questo eventuale governo potrà anche essere il migliore degli ultimi anni, ma si ci deve ricordare che non è, di fatto, espressione del voto dei cittadini ed è nato solo a causa di un fallimento dei deputati eletti a rappresentarli. È il fallimento di un sistema che si è mostrato notevolmente fragile, a tal punto da non poter essere considerato per nulla più affidabile: di certo impreparato ad affrontare le grandi sfide che attendono il nostro Paese, che per la loro rilevanza non possono essere superate alternando il lavoro a spettacoli simili a quelli cui abbiamo assistito negli ultimi mesi. Ci troviamo in un periodo che richiede preparazione e lucidità, in cui non possiamo permetterci sterili discussioni alternate a ricatti da prima Repubblica.

Tutta questa situazione era sicuramente evitabile e sottolinea ancora una voltala notevole distanza tra la classe politica ed i cittadini, che anzi persiste e aumenta. Sembra, infatti, che da destra a sinistra le personalità che dovrebbero rappresentare gli interessi di tutti noi dimentichino che il loro dovere sia quello diportare in parlamento le idee di chi rappresentano e non sollevare solo inciuci. Perché, sì, è vero che gli accordi e le contrattazioni tra differenti forze politiche sono necessarie in un processo democratico che richiede una maggioranza significativa per governare, ma la politica non è solo questo. Stiamo assistendo a scene davvero imbarazzanti: da chi è disposto senza motivo a vendersi alle decisioni del miglior offerente, a chi – pur non avendo rappresentanza popolare rilevante –pretende di dettare tutte le condizioni per la gestione della cosa pubblica.

Il compromesso sembra talvolta necessario per garantire al Paese la stabilità. Il Presidente Mattarella, infatti, si è trovato costretto a chiedere alla classe dirigente rappresentativa dei cittadini di fare un passo indietro proprio perché non è stata capace di fare un passo avanti. Non si può pensare che con la crisi economica odierna i politici discutano dei piccoli dettagli riguardanti le spartizioni degli incarichi: ci vuole un programma preciso, una maggioranza che non traballi ogni volta che fazioni diverse non concordino su un determinato tema e soprattutto serve una visione reale e sobria di come tenere le redini del nostro Paese. Queste sono solo alcune delle motivazioni che hanno agevolato l’arrivo dei cosiddetti tecnici a Palazzo Chigi.

La politica in passato è riuscita a superare le divergenze e si è unita per rappresentare il Paese unito: e si parla di un passato più complesso, economicamente e socialmente, rispetto ad oggi: quello del dopoguerra. Nonostante le diversità politiche presenti fin dalla liberazione, i rappresentanti eletti democraticamente per la prima volta dai cittadini che rappresentavano partiti con idee diametralmente opposte, hanno portato alla formazione dell’Assemblea Costituente, hanno redatto insieme – superando le divergenze e giungendo a compromessi senza minacce –la Costituzione, documento ben più complesso di quello della gestione dei fondi europei. Non c’è stato bisogno di tecnocrati o personalità di alto profilo, è bastata una classe politica che facesse politica, la quale agiva naturalmente per ricostruire dalle macerie il Paese. Per “costruttori” si intendevano proprio questi uomini politici ,che misero da parte interessi personali e di partito, per unirsi nell’organizzare un piano di rinascita insieme.

Come si è visto, purtroppo oggi non è andata così, ed è stato necessario commissariare la politica.

C’è, ancora una volta, da evidenziare che un governo scelto dal Presidente non può essere motivazione di risolutezza per i cittadini: anche se gli uomini scelti dovessero fare un ottimo lavoro, risulterebbe pur sempre uomini non politicamente schierati. Sembra che la politica abbia in questo modo perduto la propria necessità intrinseca, che non ci sia più nulla di concreto in uno spazio a tal punto labile e sconnesso. Se i nostri rappresentanti comprendessero di che colpe si sono macchiati, con questi comportamenti irresponsabili, tutto ciò cui stiamo assistendo in questi giorni non sarebbe accaduto. Al contrario, le divergenze sarebbero state superate, lavorando ad una nuova credibilità e connessione con il mondo reale e superando questo stato di occlusione. Dobbiamo solo sperare che ciò che sta accadendo non sia l’inizio di un inesorabile commissariamento delle nostre istituzioni. In questo momento storico una crisi di questo genere lascia comunque molta perplessità, soprattutto agli occhi dei giovani e futuri elettori: fa smettere di guardare alla politica come ad una realtà che abbia influssi positivi sulla vita dei cittadini e soprattutto porti alla risoluzione di quei problemi che frenano il vivere civile.