Corriere dell'Irpinia

Uno, nessuno centomila Sud

 

Analisi tante. Come le promesse. Infiniti gli slogan. Eppure il Mezzogiorno continua ad essere la grande questione del Paese. Non per mancanza di fondi. Questi, diceva il meridionalista Guido Dorso, non risolvono il problema. Semmai lo aggravano. Se le risorse diventano appannaggio della malapolitica, spesso connivente con il malaffare. E’ vero che, come dice la Svimez nel rapporto 2016, il Mezzogiorno torna a crescere e sorpassa il Centro-nord dopo sette anni. Ma anche su questo occorre una riflessione: la crescita è il risultato di uno sviluppo endogeno del meridione o, invece, fa riferimento alla chiusura della programmazione dei fondi strutturali europei 2007- 2013 che ha stimolato un’accelerazione della spesa per evitare che essi andassero in perenzione e restituiti all’Europa? In realtà i dati più recenti narrano anche, e forse soprattutto, di un dramma che nei decenni non ha trovato risposte. L’emigrazione giovanile. A lasciare il Sud, “sempre più a rischio desertificazione” (cito il rapporto Formez) sono ancora i soggetti più qualificati e dinamici che rappresentano il 20 per cento dei quali 24 mila hanno una laurea. Ciò significa che il Mezzogiorno, in conseguenza di questo fenomeno, va perdendo le sue migliori energie e quelle intelligenze che potrebbero essere protagoniste di una svolta da sempre attesa. Sono rari i centri di ricerca, approssimativa la formazione professionale, disastrosa la condizione generale del welfare. Al contrario nel Sudcresce la piaga povertà. Dieci meridionali su cento risultano in condizione di povertà assoluta contro poco più del sei per cento nel centro nord. Non v’è dubbio che alcuni interventi hanno riacceso la speranza di una nuova alba meridionale. Il masterplan con i Patti per il Sud, sia pure allo stato solamente firmati con le regioni, hanno almeno indicato una direttrice di sviluppo da non sottovalutare. Mi chiedo, però, quando essi saranno veramente operativi e quali saranno i reali benefici che ne trarrà l’intero Mezzogiorno. Per ora si è solo alla declamazione? Un sospetto, intanto,si insinua: la ripresa del dibattito sul meridionalismo è forse legata alla sorte del referendum istituzionale del prossimo 4 dicembre e alla preoccupazione sondaggistica di un Sud ostile alla riforma? Se così fosse, e non lo credo, dopo il voto referendario sotto il Garigliano cadrebbe ancora una volta, e inesorabilmente, l’effetto notte? Tra gli ostacoli che frenano la ripresa dello sviluppo del Mezzogiorno ci sono antichi vizi che non hanno mai abbandonato questa parte del Paese. Primo fra tutti la litigiosità delle istituzioni tra loro. Spesso non c’è sintonia tra Regioni e Comuni e tra questi ultimi e gli enti intermedi. Ciò dipende, a mio avviso, di un esasperato individualismo che annulla gli effetti del bene comune. Non solo. Il Mezzogiorno continua ad essere terreno di conquista della malapolitica, con la criminalità organizzata che inesorabilmente si pone come antistato. Ciò pone l’urgenza di una questione morale di non poco conto e vanifica ogni tentativo di sviluppo autonomo. Su questo, il rapporto della Svimez è puntuale, allorché affrontando il tema della criminalità e del Mezzogiorno sottolinea che, sebbene negli ultimi tempi l’azione di contrasto delle Forze dell’Ordine ai gruppi mafiosi sia stata assai incisiva “i boss continuano a presentarsi come «regolatori» delle transazioni economiche, dei rapporti tra cittadino e amministrazione, della vita politica e civile”. Come dire: il controllo del territorio e delle attività economiche da parte della criminalità, nelle sue più diverse catalogazioni, è una grave condizione che spinge il Sud verso il fondo. Come reagire? E’ questo l’interrogativo che ha impegnato(e impegna anche in queste ore intellettuali, amministratori, imprenditori e politici riuniti nell’Assemblea del Mezzogiorno in corso a Napoli e che si concluderà oggi) quanti si dedicano alla questione meridionale. Da Giuseppe Galasso a Sabino Cassese, da Isaia Sales a Adriano Giannola, da Gerardo Bianco a Pino Soriero. Ai tanti che hanno a cuore le sorti del Mezzogiorno si leva forte un monito: la politica faccia il suo lavoro e aiuti il Sud soprattutto nell’azione infrastrutturale, ma tocca a una nuova classe dirigente, anzitutto meridionale, attivare meccanismi di difesa e di rilancio di un nuovo meridionalismo per superare vecchi e risorgenti ostacoli. Nessuno si faccia illusioni: se il popolo del Sud non diventerà protagonista della sua rinascita, ogni azione, sia europea che del governo nazionale, sarà destinata miseramente a fallire. Come, purtroppo, è stato fino ad oggi. Occorre una nuova visione del territorio meridionale, un pensiero nuovo ed una capacità di sfida che passa attraverso il ruolo delle Regioni meridionali. Esse vivono oggi in una deplorevole separatezza. Guardano all’Europa ciascuna con i propri progetti, senza puntare a quella unità complessa rappresentata dall’intero territorio meridionale. Questa separatezza produce, ma non sempre, solo una ripresa locale che è cosa ben diversa dalle risposte di cui ha bisogno il Mezzogiorno. Purtroppo dalla Sicilia alla Campania, dalla Calabria alla Basilicata, passando per la Puglia, nonostante le Regioni abbiano alla guida la stessa forza politica, il loro linguaggio rimane babelico. Così si sente parlare di un modello Campania (De Luca), di un modello pugliese (Emiliano) e così via, modelli che testimoniano con la loro separatezza l’incapacità di disegnare un “modello meridionale”. Ed anche questo è una delle radici del male su cui oggi occorrerebbe riflettere.

edito dal Quotidiano del Sud

di Gianni Festa

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