Venti di guerra sulla Pasqua

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Spirano venti di guerra sulla Pasqua del 2017. Anche se non mancano tra gli osservatori internazionali quanti tentano di minimizzare il significato delle ultime iniziative militari di Donald Trump, la realtà è che c’è veramente da preoccuparsi perché mai come in queste settimane il nostro destino sembra alla mercé del capriccio imprevedibile di un uomo che gestisce in perfetta solitudine un immenso potere distruttivo, e che forse non ha in mente un chiaro disegno di politica estera. Altro che “propaganda” o “atto dimostrativo”, come qualcuno ha benevolmente commentato. Il bombardamento missilistico su una base siriana di Assad, e subito dopo il lancio sull’Afghanistan di una bomba dal potenziale mai visto prima (a un passo dall’atomica, si è detto), e ancora le voci ricorrenti sulla pianificazione di un raid preventivo contro la Corea del Nord sono veri e propri atti di guerra, la cui logica dominante potrebbe essere quella dell’escalation, il che rende impossibile prevedere quale sarà la prossima mossa. L’unico che ha indicato lucidamente il pericolo imminente e ha chiesto coraggiosamente un gesto di resipiscenza è stato papa Francesco nell’intervista di giovedì a “Repubblica”. E’ stato bene attento il Pontefice a non prendere posizione per l’uno o l’altro contendente sullo scenario bellico; ma le sue parole non consentono sottovalutazioni del rischio che l’umanità corre in questo momento… Tutto quello che ottiene non è forse di scatenare rappresaglie e spirali di conflitti letali che recano benefici solo a pochi ? L’ho detto più volte e lo ridico: la violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti". Parole chiare, che tuttavia non esimono dall’analisi degli eventi, dalla ricerca di una spiegazione che non sia semplicemente l’enfasi sull’improvvisa frenesia del Comandante in capo. Dovrebbe essere chiaro a tutti, anche perché l’esperienza recente lo dimostra, che il ricorso alle armi segna la fine della politica; ma in questo caso c’è qualcosa di più, c’è un radicale rovesciamento della politica, almeno di quella sbandierata in campagna elettorale e che aveva consentito a Donald Trump di vincere la corsa per la Casa Bianca. Lo slogan “America first” stava a significare che il presidente avrebbe messo al primo posto gli interessi di un ceto medio impoverito e spaventato, e che quindi avrebbe puntato sull’isolazionismo in politica estera, sul protezionismo nei commerci e sul nazionalismo economico. In questa chiave andavano lette l’apertura di credito a Putin, il disinteresse per la Nato, il disimpegno dal Medio oriente fino alla minimizzazione del “rischio Assad”. Ora, d’improvviso tutto è cambiato, e il fatto che l’iniziativa muscolare intrapresa sia legittimata da motivazioni pseudomoralistiche non fa presagire nulla di buono, perché in quel caso non ci sarebbe limite all’interventismo della superpotenza. Sarebbe urgente, allora, capire che cosa è cambiato nella testa di Trump, quanto hanno influito sulle sue decisioni le sconfitte politiche subìte al Congresso, come siano cambiati gli equilibri istituzionali fra Casa Bianca, consiglieri del presidente, Dipartimento di Stato, Forze armate. Il G7 di Taormina, fra quaranta giorni, potrebbe essere l’occasione per un chiarimento fra le due sponde dell’Atlantico, ma per raggiungere l’obiettivo l’Europa dovrebbe uscire dal letargo mortale in cui è precipitata in seguito alla Brexit. Altrimenti resterà inevasa la richiesta pressante del Papa: “Il mondo deve fermare i signori della guerra”.
edito dal Quotidiano del Sud