“Era il 1961 quando mio padre tenne al Circolo della stampa la prima mostra. Ancora oggi la città di Avellino ha fame d’arte e ha bisogno di spazi dove gli artisti possano raccontarsi ed esporre le loro creazioni”. E’ Romeo Alleva a spiegare l’idea da cui nasce la mostra dedicata al padre Carlo, allestita  al Circolo della stampa a 30 anni dalla morte, promossa da Archeoclub e Accademia dei Dogliosi. “Troverete – spiega – bozzetti legati alla vita quotidiana, studi dei suoi dipinti più importanti. Mio padre era convinto che fosse possibile conciliare Caravaggio e Kandinsky, il suo neofigurativimo non voleva essere un ritorno al passato ma nasceva dal desiderio di ripartire, facendo tesoro della lezione dei grandi maestri”. E’ Ilenia D’Oria dell’Archeoclub Avellino a introdurre l’incontro, moderato dal giornalista Gianluca Amatucci “Abbiamo voluto raccontare la dimensione dell’anima che emerge dalle sue opere”. Mentre il presidente dell’Accademia dei Dogliosi Fiorentino Vecchiarelli ricorda come “Carlo Alleva sia stato un grande esponente dell’arte del Novecen promuovere, tra le massime espressioni della cultura della nostra terra. Quando insegnavo a Dusseldrof, fu per me una grande sorpresa,  scoprire che era stata allestita in Germania una mostra dedicata a un artista irpino”. Luca Nacca, anche lui socio Archeolclub, ricorda come la città può rinascere a partire dalla cultura “L’Irpinia deve riscoprire i suoi figli illustri, molti dei quali sono stati artisti, da Vincenzo Volpe a Carlo Alleva. E’ questa l’unica strada per il riscatto”. Michele Miscia, docente all’Università di  Castel Sant’Angelo di Roma, sottolinea come “Oggi l’Irpinia soffre di un depauperamento che non riguarda solo la popolazione ma anche la cultura, che vede gli artisti troppo spesso abbandonati a una condizione di solitudine. Carlino, come lo chiamavano gli amici a Lacedonia, era un uomo che non passava inosservato col suo mantello e il suo carattere forte. La grandezza delle sue opere, al di là dei colori caldi o freddi che li contraddistinguono è nella loro capacità di conservare il mistero”. Tocca, quindi, alla professoressa Ilde Rampino consegnare una lettura emozionale delle opere, da “La maternità”a “La Spiaggia”, sottolineando l’intensità espressiva dei colori e delle figure che appaiono. A soffermarsi a lungo sull’uomo e sull’artista Alleva è Raffaele della Fera, genero e discepolo dell’artista “Ho conosciuto Carlo Alleva nel 1966 quando venni a visitare una sua mostra. Era uno spirito indomito, temprato dalla strada e dalle sofferenze della vita, dalla morte del padre a quella del fratello, una tigre con l’animo di un bambino, costretto a rubare molto spesso quando era un ragazzino per mangiare. Aveva imparato presto l’arte della sopravvivenza per poi dedicarsi all’arte.  Nel dipingere aveva preso coscienza di ciò che cercava in una creazione artistica, restituire la forza di un paesaggio, esprimere il fuoco che aveva dentro. Amava dipingere all’aria aperta, non gli piaceva starsene segregrato in uno studio. Non smetteva mai di lavorare a una sua  creazione, convinto che il processo di realizzazione di un’opera d’arte non avesse fine e che fosse impossibile dare un prezzo alle emozioni che trasmetteva l’arte. A chi gli rimproverava di non avere raccontato l’orrore del sisma nelle sue creazioni ,rispondeva che il suo compito era testimoniare il bello. Persino davanti alla morte non si era mai arreso e non smetteva di dipingere”. Ad impreziosire l’incontro le note dei Maestri Sergio De Castris e Elsa Nigro. La mostra potrà essere visita fino al 10 febbraio