Vita Mia, Maraini riallaccia i fili della memoria: quella bambina italiana in un campo di prigionia

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La nota scrittrice italiana Dacia Maraini, nel suo ultimo libro, ” Vita mia. Giappone 1943 – Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia” – edizioni Rizzoli  si immerge nuovamente nel racconto autobiografico, per abbracciare il dramma del campo di concentramento giapponese, dove fu detenuta con la sua famiglia, che aveva rifiutato la Repubblica di Salò. Il percorso si estende poi alla riflessione sui lager nazisti, esplorando la storia, la natura del fascismo, in particolare quello nipponico e il concetto di libertà.

Il nucleo dell’opera, centrato sull’esperienza internazionale che ha segnato la vita dell’autrice, emerge come una lettura intrigante, distanziandosi e cercando di comprendere oltre il contingente, affrontando l’esperienza e il periodo come memorie imprescindibili. In un contesto di sofferenza testimoniato dopo molti anni, la narrazione attinge ai ricordi personali e familiari, dalle pagine paterne a quelle della sorella Toni, inclusa un’intervista alla madre Topazia sul periodo di prigionia.

I Maraini, già da tempo in Giappone con il padre etnologo a Kyoto, vivono l’8 settembre 1943 imprigionati, mentre Dacia sta per compiere sette anni. Il quotidiano viene documentato con sobrietà, attraverso gli occhi antiretorici di una bambina che, per la fame, consuma formiche, arrivando a sentirsi male per l’ acido formico.

Il racconto culmina con la resa del Giappone e l’annuncio imperiale incomprensibile. La liberazione, anche se isolati in campagna, è segnata da un momento di profonda felicità, sdraiata sull’erba proibita per due anni, osservando le fronde di un albero danzare al vento.

La riflessione conclusiva affronta la possibilità di pentimento e redenzione per chi ha commesso orrendi delitti, con una Dacia Maraini che ammette l’incertezza. Tuttavia, sottolinea il potere della parola colta e poetica, appreso durante le lezioni di poesia ai carcerati. L’autrice suggerisce che il possesso di un linguaggio espressivo sostituisce l’interesse per le armi, rivelando il senso intimo di un’esperienza estrema, e ritrae l’uomo, l’umanità e le possibilità di trasformazione, caratteristiche presenti in tutta la sua carriera di scrittrice e intellettuale.

Rosa Bianco