Voto, rispetto per gli elettori

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E’ stata quasi unanime sulla stampa italiana la condanna di quello che molti (“Corriere della Sera”, e“Stampa”, fra gli altri) hanno definito lo “strappo” di Donald Trump, cioè l’affermazione velenosa di non voler riconoscere l’eventuale vittoria della sua avversaria nella corsa alla presidenza degli Stati Uniti. “Accetterò totalmente il risultato di queste storiche elezioni, ma solo se vinco io”, ha detto dopo l’ultimo faccia a faccia televisivo che lo ha visto ancora una volta perdente di fronte alla candidata democratica, più preparata sui dossier internazionali e anche meno sguaiata nella polemica che inevitabilmente si fa accesa visto che mancano appena tre settimane al voto più contrastato della storia. Ha fatto scandalo il plateale tentativo di delegittimare il responso delle urne e personalmente Hillary Clinton (“Sei una donna cattiva”), oltre alla palesemente falsa denuncia di brogli in atto, in un Paese come gli Stati Uniti nel quale il rispetto del meccanismo elettorale non è mai stato messo in discussione, neppure dopo la contrastata elezione di George Bush jr. nel 2000, quando il candidato democratico Al Gore, che pure avrebbe avuto buone ragioni per chiedere il riconteggio dei voti in Florida vi rinunciò e riconobbe il vincitore: un gesto che è “emblematico di un Paese dove la fiducia comune verso la democrazia era considerata più importante della vittoria delle proprie idee”, come ha scritto su “la Repubblica” Federico Rampini. “Era”, cioè fino a ieri, quando il ciclone Trump ha rovesciato anche quest’ultimo tabù, quasi invitando gli ultimi seguaci della sua setta (il Partito repubblicano lo ha abbandonato a se stesso e alle sue manie distruttive) a proseguire con altri mezzi una competizione persa sul terreno del confronto delle idee. Restano pochi giorni per verificare se e quanto potrà giovare a Trump una mossa che appare disperata; ma a noi conviene ora trasferire il ragionamento alle nostre latitudini, per riflettere su un dato di fatto purtroppo triste quanto indiscutibile. Qui in Italia, la delegittimazione dell’avversario politico e la messa in discussione dei risultati del voto ha fatto molta più strada che negli Stati Uniti: è cominciata prima e se ne vedono gli effetti anche oggi. Anche in Italia, come negli Usa, siamo in piena campagna elettorale, anche se da noi si voterà un po’ più in là; ma anche in Italia c’è chi sta alacremente ponendo le basi teoriche (infondate) per contestare l’esito del responso popolare. Ecco dunque che l’accusa di broglio investe la formulazione stessa della domanda referendaria, che è poi, come prescrive la Costituzione, nient’altro che il titolo della legge di cui si chiede la conferma, evocato dagli stessi oppositori al momento di avviare la raccolta di firme per sostenere il No. E naturalmente non è stato sufficiente il responso negativo, scontato, del Tribunale amministrativo per convincere i volenterosi fautori della illegalità del quesito a rassegnarsi all’evidenza: il loro obiettivo non è ottenere un impossibile riconoscimento, quanto, appunto, creare un precedente per negare, in caso di vittoria del Sì, legittimità al risultato. La pretesa di risolvere per via giudiziaria una competizione politica apre un’autostrada pericolosa, un percorso ad altro rischio. Del resto, la denigrazione e il mancato riconoscimento dell’avversario è da noi una pessima pratica che viene da lontano, e andando indietro nel tempo è anche difficile stabilire chi ha cominciato per primo. Se la destra continua a ripetere il ritornello del “premier non eletto” e quindi usurpatore, quando a norma della Costituzione (che su questo punto non si cambia) nessun primo ministro in Italia è eletto, ma tutti sono incaricati dal Capo dello Stato e ricevono la fiducia del Palamento; a sinistra per anni ci si è baloccati sul mantra, (di matrice anglosassone) che voleva un Berlusconi “inadatto a governare”. Se ancora oggi si afferma che le Camere non avrebbero potuto legiferare in materia costituzionale, quando la sentenza della Corte, pur dichiarando parzialmente illegittimo il “porcellum”, disse esplicitamente il contrario; dall’altra parte si denuncia l’eterogeneità del fronte del No che gli impedirebbe di esprimere una politica o una coalizione di governo (ma non è questa la posta in gioco nel referendum). E non ci si rende conto, sugli opposti fronti, che così facendo si mina la fiducia dell’elettorato non in questo o quel partito, ma nelle istituzioni, che sono un bene comune e condiviso, e si rende sempre più difficile ricostruire un minimo di credibilità dopo il 4 dicembre. Al voto mancano sei settimane, e saranno le più accese. Sarebbe auspicabile se i capi degli schieramenti contrapporti trovassero il tempo e l’occasione per dire solennemente, meglio se insieme, che qualunque ne sarà il risultato, sono pronti a riconoscere la legittimità della volontà popolare. E’ una questione di rispetto verso gli elettori. Si vota sulla Costituzione, e un riconoscimento reciproco sarebbe una prova di serietà della quale abbiamo bisogno.
edito dal Quotidiano del Sud