I conti aperti nell’Italia del 25 aprile

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C’è una toponomastica insanguinata e irriducibile con la quale la democrazia nata il 25 aprile del 1945 dalla Liberazione dal nazifascismo continua a fare conti rimasti aperti e che non sempre tornano. In Piazza Fontana, nella stessa Milano che 24 anni prima aveva costretto alla ritirata le truppe tedesche e i repubblichini di Salò, esplode il primo e più dirompente atto terroristico del dopoguerra. Ai morti del 12 dicembre del 1969 all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura sarebbero seguiti sempre a Milano nel 1973 quelli di via Fatebenefratelli per la bomba lanciata mentre in questura il presidente del Consiglio Mariano Rumor commemorava il commissario Luigi Calabresi, quelli dell’anno successivo in Piazza della Loggia a Brescia e poi gli altri innocenti accartocciati nelle lamiere dell’Italicus. Fino al 16 marzo del 1978 quando in via Fani, angolo via Stresa, si saldano in qualche modo strategie della tensione interna e internazionale con il sequestro di Aldo Moro, lo sterminio della scorta e dopo 55 giorni di prigionia, l’uccisione nel portabagagli di un’auto del presidente della Dc. Come in nessuna parte d’Europa, con qualche eccezione sudamericana, in meno di dieci anni è impressionante la mattanza di magistrati, giornalisti, poliziotti, carabinieri, operai, abbattuti in strada sotto casa, alla fermata dell’autobus, sulle scale dell’università, davanti ai cancelli della fabbrica. Li abbiamo chiamati anni di piombo, trame che ancora oggi non risultano del tutto intellegibili, come inducono a ritenere le verità giudiziarie che nel frattempo sono andate consolidandosi, ma che non furono prive di conseguenze: bombe e attentati cambiarono direzione alle possibili evoluzioni di una giovane democrazia inchiodandola al ruolo di fragile sentinella di confine sul cui suolo circolavano con larga agibilità le barbe finte di mezzo mondo. Il conto ci venne consegnato alla fine degli anni Ottanta quando, senza più confini da presidiare, la classe dirigente che faceva riferimento ai partiti storici avendo esaurito ogni residua prospettiva fu travolta facilmente dalle iniziative giudiziarie. Al netto delle farlocche dietrologie, del ventennio 1969-1989 resta il frutto avvelenato con cui oggi continuiamo a misurarci, e a dividerci, come già nel 1974 Pier Paolo Pasolini (“Io so… ma non ho le prove”), e Leonardo Sciascia (“Todo Modo”) avevano anticipato: le trame occulte del potere che depistano, occultano, sottraggono verità e appunto democrazia che finiscono per indurre a non fidarsi di istituzioni che tradiscono. La toponomastica riporta in Piazza Fontana, la “madre” di tutte le mancate verità, a meno di non accontentarsi della responsabilità materiale della strage attribuita a Franco Freda e Giovanni Ventura, peraltro non più processabili in quanto assolti precedentemente per lo stesso capo di imputazione. Da questo retaggio si arriva a Capaci e via D’Amelio. La sentenza di Palermo che ha assolto con formula piena Nicola Mancino dalla sostanziale accusa di aver condiviso se non incentivato l’ammorbidimento politico-giudiziario nei confronti della mafia stragista, pur emettendo severe condanne non chiarisce chi ha trattato con chi e ottenendo cosa, conferendo ulteriore ambiguità ad una verità che per quanto giudiziaria avrebbe meritato, dopo undici anni tra inchiesta e processo, maggiore e più chiara plausibilità. Aver mancato di farlo o non essersi imbattuti nella possibilità per farlo, rimanda a ulteriori capitoli ancora da scrivere e fa perdere una buona occasione alla democrazia nata dalla Liberazione di cominciare a scrivere almeno un pezzo consistente di verità non appannata dal populismo giudiziario e dalle dietrologie spesso inconsistenti che conseguono.

di Norberto Vitale edito dal Quotidiano del Sud