Cartellino giallo del Quirinale 

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L’aveva detto nel messaggio al Parlamento il giorno del giuramento, 3 febbraio 2015, e l’aveva ripetuto recentemente in un’occasione meno solenne, l’incontro con i calciatori della Juventus e del Milan finaliste di Coppa Italia, 8 maggio 2018: il mio ruolo è quello di arbitro, ma “un arbitro può condurre bene la partita se ha un certo aiuto di correttezza dai giocatori”.

Se le parole hanno un senso, i ripetuti interventi del Presidente della Repubblica in queste settimane, i richiami al rispetto delle regole, gli ammonimenti al Governo, i colloqui riservati ma non troppo con le autorità monetarie internazionali e italiane, stanno a significare che il garante, l’arbitro non è soddisfatto dell’andamento della partita e fa sapere di seguire con attenzione il comportamento dei giocatori in campo.

Per restare nel gergo calcistico, è come se si apprestasse ad estrarre dalla tasca il cartellino giallo, simbolo di ammonizione e foriero, in caso di ripetute infrazioni, di ben più gravi provvedimenti. Naturalmente, la situazione in cui si trovano Governo, Parlamento e, in funzione di garante, il Capo dello Stato è ben più complessa di una gara sportiva; eppure la sensazione è che di qui alla fine dell’anno, termine ultimo per l’approvazione della manovra di bilancio nella quale dovrà realizzarsi il programma della maggioranza, le tensioni già registrate in Parlamento e fuori, e gli scambi polemici, fatti a volte di colpi sotto la cintura, con le autorità europee, siano destinate ad accentuarsi con esiti imprevedibili.

Si registra un certo nervosismo, e ciò richiede, prima che tutto possa degenerare, una messa a punto per così dire preventiva: un richiamo alle responsabilità e alle regole del gioco, la prima delle quali è scritta nella Costituzione, che assegna all’inquilino del Quirinale il ruolo di custode dei trattati e dei vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle organizzazioni internazionali alle quali ha scelto di aderire. Entrando nella Unione europea, tanto più tra i soci fondatori, l’Italia ha accettato di considerare la propria politica economica come una questione di interesse comune, e di sottoporsi quindi, in spirito di collaborazione, alle procedure, ai vincoli e ai controlli della Commissione di Bruxelles e degli altri organismi comunitari preposti all’elaborazione di una disciplina fiscale concordata. Qui entra in gioco un’altra delle responsabilità del Capo dello Stato, che è quella di vigilare sull’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico. Non è un caso se qualcuno ha visto la mano, o piuttosto il prudente consiglio di Sergio Mattarella nella fase in cui nel giro di pochi giorni il governo ha ridotto ad un solo anno, il 2019, lo sfondamento del deficit al 2,4% del Pil promettendo una riduzione del parametro per i due anni successivi. Ma ciò evidentemente non è bastato né per soddisfare i mercati, che continuano a penalizzare il “rischio Italia”, né per ridurre la tensione con Bruxelles, che anzi ieri ha raggiunto il suo massimo con il presidente Junker che ha bruscamente accusato il governo di Roma di non rispettare la parola data.

La sindrome da fortino assediato che a volte si avverte dalle parti di palazzo Chigi non aiuta certamente a recuperare lucidità, ed è per questo che si registrano attacchi sconsiderati alle autorità di garanzia – Banca d’Italia, Corte dei Conti, Ufficio parlamentare di Bilancio – il cui compito consiste proprio nell’esercizio di una funzione tecnica che prescinde da scelte politiche. Il richiamo di Mattarella contro la tentazione di un esercizio del potere senza limiti, frutto di una vittoria elettorale inebriante, ha il valore di un monito a non andare oltre, con il rischio di compromettere delicati equilibri istituzionali.

di Guido Bossa edito dal Quotidiano del Sud