Ci vorrebbe una “Pentecoste” 

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Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, al tempo del famoso “boom” economico, oggi al centro di esaltanti revival e di “nostalgie”, addirittura da parte di coloro che non lo vissero, tra questi il premier Conte, la posa “della prima pietra” rappresentò la cerimonia più simbolica e vera di quella felice, operosa stagione della ricostruzione postbellica.
Volle dire asili, scuole, strade infrastrutture: la forza “auto propulsiva” di un popolo calato in progettualità fondamentali per la sua rinascita. Giusto chiedersi: questo “amarcord” fa parte delle cicliche emersioni delle memorie buone o è molto altro di più rilevante? Oltre al bisogno imperioso di recuperarne una esemplare lezione del fare, da monito alla inconcludenza del presente, è voglia soprattutto della grande fiducia che quel passato aveva nel futuro, come edificazione di ideali non di “baratti”. Grazie a una politica lineare, chiara, leale nelle sue battaglie anche aspre e a una classe dirigente, responsabile, competente, non raccogliticcia , che sapeva dare certezze. Tutt’altro dal nostro presente. Partiamo, ad esempio, da questa tormentata legislatura e dalle sue anomalie, causa di ricorrenti disagi e amare sorprese. Vi pare un Paese normale, il nostro, con due forze politiche, Lega- M5S fino al giorno prima del voto, contrapposte e ostili, che si sono poi messe insieme, non per fare il governo del Paese ma “un loro governo” ? In piedi per un “contratto”- un arido elenco di reciprocità tra “dare e avere”- privo di una visione strategica dell’Italia, l’unica che conta nella permanente competizione, oggi tra continenti non tra aree?. Che non fosse tutto normale- e il Paese e il “con – tratto” di governo e chi lo pretendeva – lo si intuiva o lo si temeva. Ma ora a testimoniarlo sono le statistiche, le analisi di istituti di “rating” insospettabili insieme con una crescente divaricazione di provvedimenti, che ciascuno si intesta in seno all’esecutivo: dalla questione immigrati al reddito di cittadinanza tra sospetti e riserve opposti. Facendone cavalli di battaglia, trofei di consensi estemporanei non di altro. Senza valide prospettive. Tifo e fanatismi a parte, seriamente incomprensibili, per un Di Maio che definisce ogni sua sortita, purtroppo sempre più frequenti, un momento storico, un solenne Rubicone e di un Salvini, assurto addirittura da “figlio di Pontida a Padre della patria”, novello Vittorio Emanuele II il re galantuomo, solo chi non vuol vedere, può valutare questo governo con indulgenza e fiducia nella sua promessa di cambiamenti. La verità è che l’ Italia soffre- e tanto per la mancanza, l’approssimazione di una classe dirigente nel senso più nobile del termine, di cui questo governo è “ma – glia nera”. Ora abbiamo solo rappresentanze politiche, che gestiscono poteri in funzione di strumentali battaglie di retroguardia, disfattiste e anacronistiche. Temi molto delicati, come quelli appena detti, non possono essere lasciati alle “effervescenze” salviniane, meno che meno agli sbalzi umorali grillini. E’ indispensabile una nuova classe dirigente all’altezza di vecchie e nuove sfide. Basta con gli improvvisatori, servono formazione, competenza e lungimiranza. Una lezione preziosa e molto semplice si può trarre dalla Bibbia, che riserva gli insegnamenti più impensabili per curati di campagna e teologi sovrani. E’ vero che Gesù scelse come suoi discepoli, gente normale, un pescatore, un esattore, un rivoluzionario spiantato, persone senza particolare ingegno. Ma, nel capitolo II° degli Atti degli apostoli, si legge anche che, per veder trasformati questi discepoli incolti, e senza ingegno, in apostoli, in araldi della sua parola- potremmo dire con rispetto, in “classe dirigente”- ci volle, pensate, la discesa su di loro dello Spirito Santo nel Cenacolo, il giorno di Pentecoste, per farli “potenti e illuminati uomini di Dio, che misero sotto sopra il mondo. E fu luce.

di Aldo De Francesco