Dagli eroi del quotidiano agli sfollati, storie di guerra

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di Carmine Cioppa
Un convegno molto interessante ed articolato quello organizzato al Circolo della Stampa di Avellino sul tema “Settembre ’43, 80 anni dopo l’Irpinia non dimentica” grazie soprattutto al parterre dei relatori invitati da Pasquale Luca Nacca. Testimonianze dirette, ricerche approfondite e ricche di dettagli, che hanno fatto conoscere storie inedite, alternando il “come eravamo” ad atti di eroismo sul filo conduttore delle atrocità di quella guerra e di tutte le guerre, che, alla fine, non avranno mai un vincitore. Ho aderito volentieri all’invito di leggere i miei “quattro brevi storie di guerra”, che trascrivo di seguito, ma che faccio precedere da una descrizione del contesto, riemerso nei miei ricordi, all’inizio della guerra in Ucraina.
Sono nato nel 1938, e a settembre del ’43, avevo poco più di cinque anni. Vivevo nella bella e spaziosa casa di Santa Lucia di Serino, insieme ai miei nonni, ai miei genitori ed alle mie due sorelle, una più grande di me di due anni, e la seconda, che, all’epoca, aveva poco più di un anno. L’ampio terrazzo consentiva di posare lo sguardo sul Monastero della Clarisse, sulle “mezzane”, la  collina retrostante,  e sul Monte Terminio e di dominare il cortile interno dell’edificio ed il retrostante giardino.
Ecco le storie:
Gli eroi normali
Si chiamava Teresa, ma ho difficoltà a descriverne il ruolo nella grande casa di Santa Lucia di Serino.
Potrei definirla “prima attendente” di mamma, ricorrendo al linguaggio militare del periodo di guerra.
Collaborava alle faccende domestiche e lei, che di famiglia non ne aveva più, era l’ottava persona della nostra famiglia, composta dai nonni Carmine e Felicetta, dai miei genitori e da noi tre figli.
Viveva in casa nostra, pranzava con noi ed era vigile protettrice e severa educatrice, lei che a stento riusciva  a riprodurre la sua firma, di noi bambini.
Siamo a gennaio del 1943. I tedeschi rastrellano le case alla ricerca di disertori, antifascisti e, più in generale, uomini da mettere sui treni con direzione  Germania, solo andata.
Mio padre fiuta il pericolo e, pur febbricitante, organizza in fretta una “spedizione” ad Atripalda, dove sarà più semplice trovare rifugio.
 La più piccola delle mie sorelle,  meno di due anni, cade col culetto nel braciere acceso.
 Pianti, ustioni curate alla bell’e meglio, disperazione generale, ma ecco intervenire  Teresa; non ha esitazioni, la avvolge il una coperta, la abbraccia e la porta con sé stretta al petto.
La terrà così fino alla guarigione. Quella guerra, come tutte le guerre, ha visto giovani soldati, sull’uno e sull’altro fronte,  vittime di un disegno di conquista folle e  scellerato; ha visto il sacrificio dei partigiani e la partecipazione di intere famiglie che hanno messo a repentaglio la propria vita per proteggere altre famiglie e, soprattutto, i loro  bambini, che  avevano l’unico torto di essere ebrei.
Ma ha visto anche tanti eroi comuni, come Teresa o le tante Terese, alle quali va il mio ricordo e la mia gratitudine.
 Il rifugio
 Non erano i cunicoli con cui gli Ucraini hanno convissuto e convivono nei frequenti e lunghi periodi di guerra. Era solo un lungo e largo scavo ad altezza uomo, lontano dalle abitazioni, nell’ampio cortile di casa, capace di contenere una quindicina di persona. Sentivamo, dal rombo sempre più intenso degli aerei, l’avvicinarsi del pericolo e del lancio delle bombe.
 Quel rudimentale rifugio, coperto da tavole, non ci avrebbe salvato se le bombe fossero cadute nelle vicinanze, ma ci avrebbe protetto certamente dalla caduta di pietre e calcinacci  se la bomba avesse colpito la casa.
Una volta, per il vuoto d’aria, quello scavo fu parzialmente e superficialmente coperto di terra. I più grandi, prima di tutti i nostri cugini, aprirono con le mani un varco; ma noi bambini non avvertimmo il pericolo. Per noi, quella lunga fenditura nel terreno era solo un posto in cui giocare. E la stessa  guerra era un gioco!
I paracadutisti
Agosto 1943. Gli alleati cercano di stringere in una tenaglia i tedeschi, collocando le truppe nelle loro retrovie ed immaginando dopo di distruggere ponti e strade verso Salerno per impedirne la ritirata. Cosa che si verificherà e procurerà, purtroppo,  ad Avellino oltre tremila  vittime del “fuoco Amico”.
E’ una bella serata di luna piena, quando il cielo si riempe improvvisamente di tanti palloncini bianchi che acquistano velocità mano a mano che si avvicinano al suolo.
E’ uno spettacolo indescrivibile quello che vedo dal terrazzo di casa; in meno di una mezz’ora, il giardino si riempe di paracaduti che i soldati lasciano  sul posto, dileguandosi verso punti in precedenza concordati.
Quei paracadute, lo apprenderò dopo, sono di un tessuto, mi sembra seta, molto resistente e vengono “saccheggiati” subito  dagli abitanti del Paese.
Il panorama, la mattina successiva, è ben diverso : non è rimasta nemmeno un pigna d’uva. Eppure si trattava di una “annata” eccezionale!
Gli sfollati
E’ l’immediato dopoguerra. Oggi la chiamerei  solidarietà, ma allora capii solo che non solo casa nostra, abbastanza capiente, ma anche quelle più piccole degli altri “luciani”, era disponibile per chiunque fosse alla ricerca di un tetto sotto cui alloggiare almeno provvisoriamente dopo la distruzione della propria abitazione.
Erano gli “sfollati”, provenienti soprattutto dalle grandi Città, come Napoli o Salerno, per restare nell’ambito della Campania.
Una sorta di “migrazione interna”, senza incentivi ma anche senza ostacoli, che mi riporta alla memoria un episodio che mi piace raccontarvi, facendo un salto di circa quarant’anni.
Avevo la fortuna, era la metà degli anni ’80, di dirigere, a Napoli, la più importante Sede del Banco di Napoli, e volevo meritare questo ambìto riconoscimento, allargando la platea dei clienti.
Viene a trovarmi, su sollecitazione di un mio Amico, un importante imprenditore del Nolano, molto simpatico disponibile, con cui scambiamo qualche riflessione con la promessa di rivederci. Gli consegno, come da consuetudine, il mio bigliettino da visita.
Il giorno seguente mi richiama, con molta cordialità, per chiedermi se avessi  (o avessi avuto) un nonno con lo stesso nome, se fossi originario di Santa Lucia di Serino, se avessi una sorella più grande di me…. Alla mia battuta che, fino a prova contraria, erano i bancari a chiedere informazioni sui clienti e non il contrario, spiega l’arcano.
Nel ritornare a casa, aveva mostrato il biglietto da visita alla moglie, che ricordava perfettamente mia sorella, perché era stata accolta, come “sfollata”, a casa nostra.
Una gioia infinita, come ritrovare  un ago in un  pagliaio, e rivivere stupende emozioni.
Quell’imprenditore si chiamava Vittorio Casolaro, fondatore di un piccolo “impero” per la fornitura di attrezzature alberghiere, ma che ricordo soprattutto per le sue poesie e per le rappresentazioni teatrali che insieme alla moglie realizzava a casa sua.