E’ l’insulto che vince sul confronto 

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Più si avvicina la data del 4 marzo e più questa campagna elettorale si incattivisce. L’avversario è diventato il nemico, l’insulto quotidiano non fa più nemmeno tanto effetto. Eppure i leader si evitano, in televisione non c’è stato e non ci sarà nessun faccia a faccia, tutti preferiscono il monologo al confronto. Insomma si evita il dialogo con l’altro e si continuano a proporre ricette miracolistiche. Il principale obiettivo è declinare un problema non risolverlo. Un modo del tutto diverso rispetto al passato.

Proprio in questi giorni ricorrono i quarant’anni dall’ultimo discorso parlamentare di Aldo Moro ai gruppi democristiani. Tempi di grandi scontri ideologici con la DC e il partito comunista divisi da sempre. La crisi di allora spinge i due partiti storicamente avversi ad uno spazio di collaborazione necessario. Moro il 28 febbraio del 1978 pronuncia l’ultimo suo intervento prima del rapimento e della barbara uccisione. Una sorta di testamento politico. Tutto nasce dalle elezioni del ’76 che non erano state in grado di dare una maggioranza al paese. Due vincitori la DC e il PCI “costretti” a stare insieme. Un paese scosso dalla crisi economica e dalla minaccia quotidiana del terrorismo.

Il governo Andreotti che in Parlamento aveva ricevuto la cosiddetta “non sfiducia” da parte di una vasta rappresentanza parlamentare era ormai entrato in agonia. Occorreva un ulteriore passo avanti con l’ingresso dei comunisti nell’area di governo. Il paese stava cambiando pelle. L’onda lunga del ’68, la battaglia sul divorzio e l’ascesa del PCI. Un partito votato anche da ampi settori della borghesia laica. Tempi nuovi che richiedevano scelte diverse. L’Italia però è un paese strategico negli equilibri della guerra fredda e gli americani non vedono di buon occhio il compromesso storico che sta avvicinando sempre di più le due grandi forze popolari del paese. In questo contesto così articolato e difficile si muove Aldo Moro che deve da un lato salvaguardare i rapporti internazionali dell’Italia e dall’altro aprire il partito a nuovi esperimenti.

Un sentiero stretto che Moro attraversa partendo da una considerazione: non si può incrinare l’unità della DC. Se il partito si divide il paese piomba nell’anarchia. Se questo è il ragionamento tutto politico il discorso di Moro è anche una riflessione sulla società italiana di quegli anni. Una visione lucida dei problemi e l’uomo di Stato deve avere la capacità di intervenire nelle pieghe della storia di questo Paese, comprenderne le tendenze di fondo, i vizi e le generosità, gli slanci e le resistenze. Si potrebbe dire che Moro ci regala una lezione di realismo e al tempo stesso di creatività. Parole simili lo statista democristiano le aveva pronunciate qualche mese prima a Benevento nel novembre del 1977, l’ultimo suo discorso pubblico e tra l’altro dice “non è mancata in questi anni una reciproca influenza tra le forze e quale che sia la posizione nella quale ci si confronta qualche cosa rimane di noi negli altri e degli altri in noi: esigenze, problemi di diritti civili, problemi sociali, ceti emergenti, preoccupazioni di pace, di sicurezza”. La dimostrazione che si può essere uomo di parte ma contemporaneamente uomo delle istituzioni capace di comprendere i mutamenti sociali tentando di governarli e spiegando a tutti che determinati valori devono essere condivisi sia dalla maggioranza che dall’opposizione.

Questa sua lezione è oggi la più inascoltata. Al contrario di Moro che parlava a tutti adesso ci si rivolge solo alla propria parte, la si accarezza e la si illude. E quando qualcuno lo rimproverava accusando lui e la DC di essere troppo languidi, di aver fatto promesse e non riforme rispondeva, che di riforme forse ne abbiamo fatte troppe.

di Andrea Covotta edito dal Quotidiano del Sud