I giovani di fronte alla crisi

0
799

 

Per ministri, politici, tanti osservatori esterni, basta dire “bamboccioni”, ed è tutto chiaro. “Ho detto tutto”, diceva Peppino De Filippo e in realtà aveva detto poco e male e talora non aveva detto proprio niente. Purtroppo, invece, c’è tanto da dire e da chiedersi su questo diffuso e delicato problema. Innanzitutto, occorre porre un netto discrimine: questi “bamboccioni” non hanno nulla da spartire con i “vitelloni” degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, né con quelli a cui era stata appiccicata l’etichetta di “vermi nel formaggio” tra gli anni Settanta e Ottanta. Quelle situazioni lì appartengono ad altri contesti. In secondo luogo, i “bamboccioni” non vanno considerati come se fossero un blocco organico e monolitico. Al loro interno si diramano e si pongono in essere molteplici e nuove situazioni in svolgimento, dove ci sono certamente tante concrezioni passive fatte di banalità e di scontatezza, dove però ci sono anche slavine di regressione allo stadio infantile o addirittura prenatale, tante paludi di macerazione e di scoraggiamento, tante opzioni di divaricazione rispetto all’esistente, tanto bisogno di un’altra cultura e di un’altra relazionalità nel/col mondo. Ebbene, tutto questo sta quotidianamente sotto i nostri occhi, ma non riusciamo a vederlo. Perché ciò che sta sotto gli occhi non fa notizia, non provoca attenzione, proprio come accade intorno alla “lettera rubata”, di cui ci ha parlato nel racconto omonimo Edgar A. Poe. L’etichetta di “bamboccioni” può tornarci contro come un boomerang e colpire in malo modo quei “bamboccioni” che siamo noi e che non riusciamo a riconoscerci allo specchio. Sulla questione “bamboccioni” si rovesciano devastanti effetti di ricaduta delle maggiori contraddizioni del nostro tempo. Al primo posto è la realtà globale, che ha creato un sistema di controllo, di aggiustamenti e rafforzamenti a livello planetario, dove l’individuo è riconosciuto unicamente come utente e non è stimolato alla creatività e alla responsabilità personale. Per i giovani, e anche per i meno giovani, non c’è altra scelta che prendere o lasciare. L’offerta di lavoro, che si viene sempre più riducendo e canalizzando in contratti a termine, fra i quali bisogna scivolare a slalom, quando va bene, induce più alla perplessità che alla motivazione. Le migrazioni di massa e i veri e propri esodi di popoli scoraggiano dall’affezionar – si al territorio e a mettere radici. La crisi dei valori essenziali per il nostro mondo occidentale, quali la democrazia, il rispetto della persona, la giustizia, l’eguaglianza, la libertà, sollecita a scommettere più sulla sopravvivenza che sulla partecipazione, dove bisogna metterci la faccia. L’affondamento nell’oblio di tanti mestieri e risorse professionali ispira tristezza. L’involgarimento della funzione della memoria come merce in vendita, si pensi a Google che dispone della memoria più complessa ed elaborata del mondo, non stimola ad arricchire i propri tesori memoriali, come nelle epoche passate. La stessa sovrappopolazione e l’innalzamento costante dei livelli di inquinamento spingono alla retrattilità e all’umbratilità. L’apertura sempre più spaventosa e colpevole della forbice fra ricchi sempre più ricchi e in numero sempre più ridotto e poveri sempre più poveri in numero crescente provoca insicurezza e smarrimento. In uno scenario così cupo e quasi da incubo, non può non deve far meraviglia che i giovani sotto la laurea rinuncino a laurearsi e si chiudano monadicamente in sé stessi, tanto quando vogliono vedere qualcosa, qualunque cosa, del mondo, ce l’hanno a portata di mano nel telefonino. O, fatto ancora più grave, aderiscano alle seduzioni del nulla e della morte, come i foreign fighter e loro simpatizzanti. O smarriscano proprio il senso del desiderio, per affacciarsi su altri orizzonti, quali quelli indicati da Franco Rella, Giorgio Agamben, Michel Foucault, Samuel Beckett, Friedrich Dürrenmatt.
edito dal Quotidiano del Sud