Il contropiede del presidente Draghi

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Chi pensa che Mario Draghi sia solo un tecnico, per quanto competente, dovrà ricredersi. A meno di due settimane dall’inizio del “semestre bianco”, il presidente del Consiglio ha piazzato sullo scacchiere politico due mosse che danno la misura del coraggio e della determinazione con le quali si appresta ad affrontare la fase più delicata della sua esperienza di governo, quella in cui gli verrà a mancare la rete di protezione consistente nel potere di sciogliere le Camere, che la Costituzione non riconosce al Presidente della Repubblica negli ultimi mesi del suo mandato. Per i partiti che costituiscono l’ampia quanto eterogenea maggioranza parlamentare, il potere di scioglimento era fino a ieri la minaccia in grado di azzerare ogni tentazione centrifuga. Il presidente della Repubblica l’aveva detto chiaramente al momento del varo del governo di unità nazionale: Draghi è l’ultima spiaggia, dopo ci sono solo le elezioni e ognuno dovrà fare i suoi conti nei seggi. Ma dal 3 agosto questo avvertimento è una pistola scarica, e per questo il governo, si pensava, sarà più debole, alla mercé delle pretese dei partiti sui punti più qualificanti del programma. Nemmeno per sogno, ha chiarito Draghi, che ha colto l’occasione di una riunione quasi di routine del Consiglio dei ministri per ingaggiare i due partiti più indisciplinati – Lega e Cinque Stelle – in un vero e proprio braccio di ferro: agli uni ha detto che l’invito a non vaccinarsi è un “appello a morire”, agli altri che sulla riforma della giustizia targata Cartabia il governo è pronto a mettere la fiducia. Nell’epoca della estrema personalizzazione della politica, più che i partiti la duplice minaccia del presidente del Consiglio è apparsa rivolta ai leader: a Matteo Salvini che strizzava l’occhio ai no vax implicitamente boicottando la campagna vaccinale del generale Figliuolo; a Giuseppe Conte che aveva assicurato lealtà al governo, dando poi via libera a centinaia di emendamenti ad un disegno di legge varato all’unanimità dal Consiglio dei ministri.

Draghi ha capito che se avesse mostrato debolezza in questo momento, dal 3 agosto prossimo sarebbe stato in balia dei suoi più riottosi alleati, e ha giocato in anticipo le sue carte. Finora l’azzardo ha pagato. Sulle prime, Savini ha manifestato stupore, ma poi è corso ai ripari: ieri mattina si è vaccinato, e l’ha fatto sapere all’universo mondo. Più imbarazzata, finora, la reazione dei grillini. Conte ha visto scoperto il suo bluff: se dà retta all’ala più barricadiera dei suoi dovrà vedersela con Grillo, Di Maio e con tutta la componente “governista” del partito, e sarà per lui un salto nel vuoto. Finora solo la ministra delle politiche giovanili Fabiana Dadone, che per due volte ha votato a favore della riforma in Consiglio dei ministri, ha ipotizzato l’uscita dal governo in caso di mancata intesa. Una trentina di deputati sarebbero pronti a seguirla: pochi per impensierire il governo, abbastanza per far barcollare il non ancora leader del Movimento. Facile prevedere come andrà a finire: il primo round della partita sarà vinto da Draghi. Il secondo, forse più impegnativo, si giocherà in autunno, quando si andrà a votare alle amministrative, e la sfida chiamerà in causa di nuovo Lega e Cinque Stelle ma anche il Pd, che si sta legando con i grillini in una sorta di patto di desistenza avente per oggetto il Comune di Roma: una vittoria di Gualtieri lascerebbe libero per Conte il seggio parlamentare di Roma 1, compensato dalla candidatura di Enrico Letta a Siena; ma a fare le spese dell’intesa sarebbe Virginia Raggi, e le ripercussioni nel Movimento sarebbero, di nuovo, imprevedibili.

di Guido Bossa