Il merito e le raccomandazioni

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Di Gianni Festa

Pietro ha ventuno anni, si è diplomato con una eccellente media, due anni fa al Liceo Scientifico “Mancini” di Avellino. Sbarca il lunario distribuendo volantini pubblicitari. Ha tre fratelli. Uno è arruolato nell’Arma dei Carabinieri a Milano, un altro fa il poliziotto a Brescia e il terzo esercita l’attività di cuoco nel modenese. Le origini di Pietro e della sua famiglia sono modeste. Lo incontro lungo il corso Vittorio Emanuele in una calda sera di giugno mentre, da solo, consuma una bibita. Incuriosito lo invito al mio tavolo. “Come va la vita?” gli chiedo. E quasi non aspettasse che questa domanda mi inonda di riflessioni tra la delusione, la frustrazione, senza mai abbandonare la speranza però per una vita migliore. La sua condizione è uguale a quella di migliaia di giovani meritevoli, soprattutto meridionali, che non riescono sempre a imporsi. Cosa è il merito? Secondo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino “Sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici secondo la loro capacità dignità e senz’altra distinzione che quelle delle loro virtù e del loro impegno”. Questo come principio. Quando si passa dalla carta ai fatti, la realtà è ben diversa. Qui vale il detto: “Se hai un santo in paradiso…”. Allora il merito diventa un valore del tutto inutile. A meno che esso non sia il tardivo riconoscimento da parte della comunità, come avviene spesso, per i giovani ricercatori. Che cosa mortifica il merito? La raccomandazione che è sopravvissuta a secoli e millenni. Era in voga ai tempi di Cicerone, più ancora con Mussolini e in questo tempo di enorme precarietà addirittura dilaga. Si racconta che ai tempi di Spadolini ministro della Pubblica Istruzione nel quinto governo Andreotti, le raccomandazioni venivano accatastate in una stanza apposita, tanto che egli propose di bruciarle, ma cadde il governo. Resta nel tempo la famosa frase dell’ex inossidabile Giulio Andreotti che, accusato dalle opposizioni di dispensare favori a destra e manca rispose: “La raccomandazione è come quando allo stadio uno spettatore si alza in piedi per vedere meglio e tutti si alzano insieme a lui”. Per farla breve il costume della raccomandazione è tra quelle abitudini che, si teme, non moriranno mai. Le conseguenze sono pericolose. L’inginocchiarsi per sopravvivere al potente di turno comporta una immoralità che si espande in tutti i settori. Nell’acquisizione degli appalti tramite la spintarella, nella conquista di un posto di lavoro e finanche nella richiesta di un certificato; la raccomandazione è protagonista nell’inquinare la politica attraverso il trasformismo, il cosiddetto voto di scambio e così via. C’è chi si raccomanda per ottenere un lavoro, una casa, un marito e i deputati pronti ad aiutare non si contano. Dicono di accettare la spintarella per spirito umanitario. In sé la spintarella non è un reato. Tuttavia i soggetti in campo sono i gestori del potere, “corruttori” in buona fede, ma con interessi specifici. Lo sterminato popolo dei richiedenti una raccomandazione si divide tra bisognosi veri e profittatori del sistema. Nel Sud e in Irpinia, dove la precarietà del lavoro assume dimensioni drammatiche, e peggio sarà per l’avanzare delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale, il conflitto merito-raccomandazione è più evidente che altrove. E ciò chiama in causa la classe dirigente ad un nuovo e diverso impegno se non si vuole che nel deserto di occupazione il ricorso alla raccomandazione prevalga inesorabilmente. Gli strumenti del nuovo corso possono essere formazione professionale delle giovani leve e un rinato grande rigore morale nel fronteggiare il divario merito-raccomandazione.