Il Mezzogiorno e il mandato di rappresentanza

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Il dibattito in corso sulla legge elettorale e la possibilità del voto anticipato riportano il pensiero sul valore del mandato di rappresentanza e la selezione della classe dirigente. Indubbiamente la riforma, per come annunciata, non aiuta ad innovare il sistema politico. Troppe sono le chiusure, esasperato l’atteggiamento di difesa dei grandi partiti, ambigue le alleanze del dopo voto e, soprattutto, precaria la stabilità del governo. Si torna, nella sostanza, a quel potere di interdizione, sperimentato con grave danno, nei tempi del pentapartito. Si spera, comunque, che i propositi di apportare modifiche rilevanti alla legge possano correggere l’errore di partenza. Ovviamente se il percorso legislativo andrà avanti e non sarà bloccato dai contrasti che stanno emergendo in queste ultime ore. La preoccupazione maggiore riguarda quel ruolo di sovranità che dovrebbe avere il cittadino. Questi non è più (forse mai lo è stato) arbitro, per come lo intendeva il compianto storico delle dottrine politiche Roberto Ruffilli. La sua tesi si sostanziava nel principio secondo cui nello scegliere e nel cambiare la maggioranza di Governo il cittadino fosse arbitro, e non spettatore di una delega in bianco affidata ai soli partiti. Avvertendo che, privando il cittadino del ruolo di arbitro, il rischio fosse quello di svuotare di contenuti il mandato elettorale conferito. Appare evidente che con questa annunciata legge elettorale gli interessi si spostano dal cittadino ai partiti, che pure dovrebbero essere i veicoli principali per l’affermazione del sistema democratico, e, invece, agiscono sempre più come una casta consolidata. Ciò detto, la riflessione si allarga al valore del mandato di rappresentanza e alla funzione che esso deve svolgere nell’interesse delle comunità da cui ottiene il consenso. Da questo punto di vista il Mezzogiorno consegna un deficit di politica di attenzione di sviluppo territoriale che si perpetua negli anni, dando vita alla irrisolta questione meridionale. Ci si chiede: il Sud dispone di una classe dirigente che, al di là del clientelismo territoriale, sia in grado di portare avanti una politica unitaria per lo sviluppo dell’intero territorio meridionale? La separatezza degli interventi regionali, spesso nella logica del campanile, non aiuta il Sud a fare passi in avanti. C’è di più. Se si fa riferimento alle discussioni nelle aule parlamentari che riguardano il Mezzogiorno, l’esigua presenza della rappresentanza parlamentare meridionale (e agli sbadigli dei pochi che vi partecipano), appare evidente che il mandato di rappresentanza è completamente tradito. Se così è a livello parlamentare, non diversamente avviene nelle regioni meridionali. Esse non hanno saputo cogliere la sfida del cambiamento, pur facendo oggi riferimento, prevalentemente, ad una stessa forza politica, il Partito democratico. E’ mancato un piano di sviluppo meridionale, nonostante una cascata di risorse economiche che, però, hanno finito quasi sempre per consolidare quel sistema delle clientele, antico male del Sud. Non è stata sufficiente neanche l’istituzione di un risorto ministero per il Mezzogiorno per invertire la tendenza. Lo dimostra il fatto che regioni meridionali, pur contigue tra loro, sono prive oggi di infrastrutture , soprattutto di collegamento. In alcune zone del Sud resiste ancora una logica medioevale nei trasporti. In realtà, il Sud è più esposto alle devianze criminali perchè marginali sono gli interventi nei grandi processi di sviluppo territoriale e sociale. Si pensi solo all’erogazione del credito da parte delle banche meridionali. Esse fungono da idrovora nella raccolta del risparmio delle popolazioni del sud, con investimenti nelle imprese del centro nord. Ciò si evince anche dallo spostamento dei centri direzionali nel settentrione. Nel Mezzogiorno, invece, le banche spesso costringono gli imprenditori a subire il ricatto dell’usura. Su questo terreno il mandato di rappresentanza del territorio, sia da parte degli eletti nel Parlamento, che nelle regioni, è pari ad un silenzio tombale. Non vi è mai stata una precisa denuncia. Per complicità o per paura? Certamente si tratta di silenzi inquietanti. Va poi fatta una riflessione sulla conquista del consenso. Esso il più delle volte si ottiene o per promesse elettorali (molto spesso non onorate) o per nepotismo, rispettando una tradizione che nel Sud è dura a morire. Difficilmente il consenso viene espresso con il riconoscimento del merito di chi si propone. Tutto ciò ha causato, nel tempo, il distacco delle nuove generazioni dalla politica, vista come obiettivo di sfrenato arrivismo e di smodate ambizioni. Di qui anche la considerazione che molto spesso la deputazione meridionale è giacobina in Parlamento, o nelle regioni, e forcaiola nei propri territori. Ora per tornare alle responsabilità politiche della classe dirigente e alla riforma in atto della legge elettorale, non si può escludere che essa non aiuterà il Mezzogiorno ad uscire dalla crisi. Probabilmente ne aumenterà le difficoltà. Il sistema del listino, così come previsto, finisce per mortificare merito e competenza e preferire la logica dei capibastone. Quella stessa logica che nei decenni è stata causa della mancata selezione di una reale classe dirigente. Non solo: ancora una volta il cittadino diventerà suddito e non sarà protagonista del necessario e urgente cambiamento. E i partiti senza più politica continueranno a dettare le regole del gioco.

edito dal Quotidiano del Sud

di Gianni Festa