Il tempo del consenso effimero

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Sono passati dieci giorni dal voto delle politiche, la vittoria di Giorgia Meloni viene letta come una rivincita della politica sui tecnici e come conseguenza della voglia degli italiani di tentare un’altra strada. E’ stato così quattro anni fa con i Cinque Stelle e lo è stato sin dall’inizio della seconda Repubblica quando si impose Silvio Berlusconi. Il leader di Forza Italia, oggi non a caso ancora in sella dopo quasi trent’anni, è il grande illusionista della politica italiana e un po’ tutti si sono ispirati a lui. Concita De Gregorio ha scritto che se guardiamo indietro “c’è stato prima il consenso al rottamatore che prometteva di mandare a casa i vecchi ingrigiti dal potere, poi al comico che mandava a casa il rottamatore, poi all’uomo del popolo che la cultura è un privilegio della casta, poi alla donna del popolo che il fascismo ora che c’entra, è tutta propaganda”. Renzi, Grillo, Salvini, Meloni, quattro leader in meno di dieci anni. La prima volta che Fratelli d’Italia si è presentata alle elezioni è stata nel 2013 e raccolse solo un misero 1,96 per cento. Grazie, però, ad una singolare norma del Porcellum, riuscì ad entrare in Parlamento come il primo tra i partiti rimasti sotto la soglia, cioè tra quelli che non avevano raggiunto il tre per cento. Eleggono in tutto nove deputati e nessun senatore, in meno di dieci anni Fratelli d’Italia è diventato il primo partito del Paese. Alle Europee del 2014 che segnano il trionfo di Renzi, Giorgia Meloni resta fuori dal Parlamento di Strasburgo e nel 2016 arriva solo terza nella corsa a sindaco di Roma largamente staccata da Virginia Raggi. La scalata comincia nell’ultima legislatura e i sondaggi segnalano la crescita di Fratelli d’Italia ben prima della decisione di non partecipare al governo Draghi. Siamo tra i Paesi fondatori dell’Europa e all’estero guardano con interesse e curiosità a quello che sta succedendo e all’ascesa della Meloni. Antonio Polito si è chiesto “come abbia fatto una giovane donna, sicuramente una professionista della politica, ne mastica fin da ragazza, ma tutto sommato senza una grande storia alle spalle (famiglia modesta, studi fermi al diploma, un immaginario fantasy-fiabesco da «generazione Atreju») a salire dal 4% al 26% in cinque anni. La mia risposta preferita è quella che mi ha suggerito qualche giorno fa un inviato del giornale francese Le Figaro. Lui è andato tra la gente per strada, e a tutti coloro che avrebbero votato Giorgia ha chiesto: che cosa vi ha convinto? Quale proposta nel programma, quale promessa? Nessuno ne ricordava nessuna. Ci pensavano un po’, e poi concludevano: la voto per la coerenza”. E se la Meloni è cresciuta sono invece collassati gli altri leader che hanno immaginato di avere il Paese in mano. E’ accaduto a Renzi passato da Palazzo Chigi a leader in condominio del movimento centrista, a Grillo che ha fondato i Cinque Stelle e che adesso sono diventati il Movimento di Giuseppe Conte. Nel centrodestra il tonfo più clamoroso è quello di Salvini che da quando ha fatto cadere il governo giallo verde non si è più ripreso, alcuni la chiamano la sindrome del Papeete, dal 2019 è una discesa continua. La politica figlia della cultura del Novecento e delle radici ideali si è chiusa da tempo. Allora la leadership di un partito era plurale come nel caso della Dc oppure monolitica come nel Pci, ma con la caratteristica di durare nel tempo. Oggi tutto è più rapido, il consenso è più effimero ma come insegna Milan Kundera “c’è un legame stretto tra lentezza e memoria, tra la velocità e l’oblio”.

di Andrea Covotta