Il vescovo Aiello: valorizzare i giovani in questa terra. Se oggi non sono protagonisti è perchè non li abbiamo chiamati

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«Sono i giovani la mia priorità, è da loro che voglio partire nel mio percorso all’interno di questa diocesi». Lo sottolinea con forza il vescovo di Avellino Arturo Aiello in un’intervista a tutto campo «Il mio compito è tessere la speranza, ripetendo a questi giovani che la nostra terra non li manda via e se dovessimo partire, la speranza è che un giorno possano tornare. Vorremmo che le intelligenze si valorizzassero qui in questa terra che ha bisogno dei suoi giovani». Un fenomeno, quello dell’emigrazione, che don Arturo spiega di conoscere bene «Vengo da una terra dove interi paesi si stanno spopolando, questo significa tristezza e assenza di futuro. Per i giovani il lavoro è pane ma anche rose, significa gratificazione professionale. Mi auguro che andando lontano, possano comunque avere un corridoio di ritorno». “Sono un manovale, – confessa – non un teorico ma a volte per costruire un palazzo vale di più il parere di un manovale che quello di un architetto”. Sottolinea come “per lui sia la prima volta in una città con le sue incognite e potenzialità”. Spiega di essere “in osservazione, non vi aspettate proclami, significherebbe definire una terapia senza ancora aver fatto una diagnosi. Sarà per me un anno di ascolto, è come se tornassi in prima elementare, sto imparando a sillabare quella che è questa città, cercherò di capire come si fa il vescovo ad Avellino”. Ai giornalisti non chiede sconti o di abbellire quella che è la realtà della chiesa ” Vi chiedo una lettura serena della realtà, il dialogo, di svolgere un’azione di mediazione”. A chi gli domanda le prime impressioni ricevute dalla diocesi parla di una città vivace “Dopo la cerimonia di venerdì, ufficiale e un po’ impettita, ho avuto modo di visitare due parrocchie e l’idea che mi sono fatta è quella di una realtà variegata, potenzialmente ricca. Ci aspetta una grande sfida, quello che conta è costruire il futuro, certo è che se non apriamo strade, sarà tutto inutile”. Inevitabile il riferimento al ruolo di supplenza a cui è chiamata la chiesa, costretta a misurarsi con i vuoti lasciati dalle istituzioni “La chiesa non può non misurarsi con la storia, incarnazione è la parola cardine della fede, incarnazione che significa sporcarsi le mani, sapere che non si va a parlare ad anime ma a uomini con paure ed angosce. Al tempo stesso è chiaro che la Chiesa non deve dare soluzioni ai cittadini. Del resto, la Chiesa svolge quest’azione di supplenza da duemila anni, che si parli di assistenza agli anziani o di istruzione. Naturalmente non è il caso che le istituzioni si appoggino in maniera eccessiva alla Chiesa, ciascuno è chiamato a svolgere il proprio compito”. Ribadisce l’importanza di azioni come quella della Caritas “quelle che chiamiamo opere segno ed evidenziano l’attenzione crescente alle povertà. Nel nostro piccolo cerchiamo di fare il possibile, siamo pronti a continuare in quest’impegno a e fare anche di più”. Chiarisce meglio il senso del rapporto tra Chiesa e istituzioni “A ciascuno il suo non significa ognuno nel suo palazzo ma che ciascuno deve vigilare sull’operato dell’altro. Pensavo anche alla sassaiola che alcuni parroci scatenano sull’altare quando c’è bisogno di consolare”. Ribadisce anche la centralità dello spazio del prepolitico che riguarda davvero tutti ” Penso che la Chiesa possa educare le nuove generazioni all’impegno politico, il problema è che ci sono stati padri senza figli, incapaci di trasmettere l’amore per la polis, di mantenere il proprio ruolo senza progettare il futuro. La Chiesa può dare il suo contributo, oggi i credenti fuggono dall’impegno politico, non ci si misura con la responsabilità legate alla cosa comune, si tratta di attivare il cammino alla formazione al prepositivo in modo da formare la classe dirigente. Il risultato è stato uno stato governato da una gerontocrazia, altri paesi hanno rischiato con i quarantenni, è vero che i giovani non ci sono ma è anche vero che non li abbiamo chiamati, non li abbiamo formati”. Spiega di apprezzare il palazzo vescovile ma confessa che “mi manca il verde. ogni giorno vado a recitare il rosario in Villa, sono abituato a mettere le mani nella terra”. Spiega di voler continuare lungo la direzione inaugurata da Francesco Marino nel segno del sostegno delle iniziative di emergenza, a partire dall’accoglienza ai migranti: «Basterebbe un po’ di memoria, parlare con i propri nonni, con i genitori per ricordare i tempi in cui anche noi eravamo costretto all’esodo negli Usa, nel Sud America, nel Nord. Basta questo per capire che le migrazioni non rappresentano un’emergenza ma una dimensione della storia». A chi gli chiede se sarebbe disposto ad ospitare in spazio di proprietà della Curia gruppi di migranti risponde sottolineando la «massima volontà di offrire un sostegno all’accoglienza nelle strutture abilitate, ponendo delle opere segno. Nella mia vecchia diocesi avevamo stabilito che la canonica ospitasse dieci migranti». E sull’emergenza ambientale che vive la Valle del Sabato chiarisce che «La Chiesa ama la terra, l’acqua, l’aria, mi entusiasma il verde dell’Irpinia. E’ quello che ribadisce Papa Francesco nella sua Enciclica “Laudato si”» E si concede una battuta «Speriamo che sia ancora verde e non al verde». Non nasconde le proprie ansie riguardo «alle grandi aspettative che mi accompagnano. E’ per me il richiamo a una responsabilità ancora più forte. Colgo in quest’attesa anche il desiderio di fede, la volontà dei fedeli di fare parte della Chiesa». E sul Centro per l’autismo: “Non ho ancora fatto visita al cantiere ma è senza dubbio una questione urgente se può servire anche per poco ad allievare le sofferenze che gravano solo sulle spalle delle famiglie”