In difesa della politica

0
778

 

Per ben due volte negli ultimi venticinque anni il sistema politico italiano è stato profondamente cambiato non per una scelta del Parlamento, espressione della volontà popolare, o del Governo che ne è l’emanazione, ma per un intervento diretto degli elettori o della Corte costituzionale, in questo caso chiamata in causa da alcuni tribunali ordinari. Nel 1994, il sistema elettorale prevalentemente maggioritario, che sostituì il sistema proporzionale in vigore fino ad allora, fu adottato in seguito al risultato dei due referendum abrogativi del ’91-’92; nel secondo caso, mercoledì scorso, è stata la Consulta a decidere il ritorno al proporzionale abrogando le norme maggioritarie dell’Italicum così come aveva fatto due anni fa per la legge elettorale del Senato. Ne è seguita da parte di molti una denuncia severa sull’inadeguatezza della classe politica e sul distacco incolmabile fra elettori ed eletti, con grave discredito per questi ultimi, che certamente non meritano una difesa d’ufficio ma neppure una condanna senza appello, come se non rappresentassero essi stessi, in qualche modo, gli umori, i pregi e i difetti di chi oggi ne denuncia l’inadeguatezza. E’ un dato di fatto, dimostrato dai sondaggi d’opinione e dagli stessi risultati elettorali, con la progressiva diminuzione dell’affluenza alle urne, che gli anni nei quali si è più accentuato il distacco degli italiani dalla politica sono stati proprio gli anni del maggioritario, che di per sé avrebbe invece dovuto favorire un rapporto diretto fra rappresentati e rappresentanti, fra società civile e ceto politico. Se così non è stato, e se anzi la distanza si è accentuata fino ad apparire oggi quasi incolmabile, la responsabilità non può essere attribuita solo ai politici, come se solo essi meritassero una condanna in blocco. Tra l’altro, gli stessi giudici costituzionali che hanno bocciato l’Italicum non sono certo estranei a quella classe dirigente che, espressa nel Parlamento, l’aveva votato. Anzi, i componenti della Corte sono un prodotto altamente selezionato dell’élite (qualcuno potrebbe dire della casta) amministrativa, politica, giudiziaria che ci governa. Per cui gettare la croce addosso alla sola politica, ai partiti, sembra più un comodo scarico di coscienza che un esercizio di critica ragionevole. Se in questi anni c’è stato un fallimento, esso ha coinvolto l’intera società civile, da cui la politica trae alimento; e quindi in primo luogo le agenzie educative – fami – glia, scuola, Chiesa –, i corpi intermedi, le articolazioni del governo locale, le professioni. I torti, e le colpe, non stanno da una parte sola; la degenerazione corporativa che ha colpito la nostra società non ha risparmiato nessuno, e l’inadeguatezza della politica a tutti i livelli ne è il risultato. Per uscirne non serve cercare un comodo capro espiatorio, ma occorre operare una comune assunzione di responsabilità. L’espressione “Ciascuno faccia il proprio dovere”, con cui il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha concluso il suo intervento al Senato sulla tragedia di Rigopiano, deve valere per tutti; e in essa è implicito l’invito a non accelerare i tempi per una resa dei conti elettorali. Dare alla politica il tempo per presentarsi agli elettori con il volto migliore possibile dovrebbe essere impegno comune. Vincere su un terreno ingombro di macerie non conviene a nessuno.
edito dal Quotidiano del Sud