La città ieri, oggi e domani 

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Mi chiedo perplesso: perché mai chi è responsabile del degrado della città ha l’ardire di ripresentarsi al corpo elettorale, chiedendo il consenso per essere rieletto? Non è forse vero che, in misura maggiore o minore, egli ha contribuito a determinare quel pre-dissesto che tarpa le ali dello sviluppo di Avellino, richiedendo sacrifici ai cittadini e scarsi investimenti per il futuro? Decenza, se mai esiste ancora, avrebbe voluto che costoro facessero passi indietro. Gli interrogativi nascono da un’analisi sullo stato della città, capoluogo dell’Irpinia, un tempo faro della politica provinciale e non solo. Il dato che emerge con grande evidenza è la scomposizione del tessuto cittadino avvenuta per effetto di una incontrollata speculazione edilizia. Essa ha messo le mani sulla città, favorita da un connubio politica-partiti di alcuni costruttori, portatori di consenso. Questo connubio che ha dato spazio alla corruzione e alle clientele, premiando personaggi servili e talvolta incompetenti, ha penalizzato alcuni storici quartieri cittadini, favorendo la crescita disordinata su quelle colline, un tempo vanto del verde urbano. Così mentre borgo Ferrovia, San Tommaso, Valle, Picarelli e Quattrograne sono andate sempre più sprofondando nel degrado, con bisogni non ascoltati, gli squali del cemento hanno costruito altre due città residenziali, una, sulle colline dove un tempo sbuffavano le ciminiere dell’industria dell’indimenticabile Fiore Caso e l’altra, distesa nel verde, costruita alle spalle dello stadio Partenio. Al centro città, una volta salotto di Avellino, lo spazio è stato occupato dalla vergogna di un mercatone inutilizzato da quasi mezzo secolo e da un buco maledetto, il tunnel, che non vede ancora luce. Perché tutto questo? Per responsabilità della malapolitica e della violenta aggressione del cemento senza regole che non hanno consentito di realizzare il sogno di una città coesa, a dimensione umana. E mentre si squarciava il ventre della città e si cementificavano le sue verdi colline, chi ne è stato protagonista ha solo ricevuto senza mai dare.
Se questo è, e Avellino con le sue ferite lo dimostra ampiamente, occorre allora ragionare sul come recuperare omissioni e ritardi, avendo nella mente e nel cuore il disegno di una città che superando stridenti smagliature, riacquisti il senso della comunità partecipata. Cosa impossibile, se i soggetti in campo sono quelli di ieri che gattopardescamente si ripresentano come una leva di morti sullo scenario elettorale. Se così fosse, e, credetemi, non lo auguro alla mia città, ogni speranza di resurrezione sarebbe vana. Occorre una nuova classe dirigente dotata di grande moralità, protesa verso il bene comune. Fare il sindaco di Avellino oggi non è certo gratificante se non si è dotati di un grande spirito di servizio, di una forte passione civile, dell’amore per una città bistrattata e violentata. Occorre coraggio e determinazione. E’ assolutamente importante sfuggire dai compromessi al ribasso e ricercare competenze, indiscusse professionalità, autonomia nel fare. Diventare il sindaco della comunità significa predisporsi a servirla, superando il deteriore individualismo e la sfrenata ambizione dell’avere contro l’essere. Significa avere il coraggio di liberarsi della burocrazia del potere, quello stesso diventato ricatto nei confronti della politica del fare nell’inte – resse generale. Chi si dispone su questa linea di coraggio diventa credibile. Chi ha il desiderio di credere, ritenendo che un’altra città è ancora possibile, scenda in campo e accetti la sfida della qualità contro clientele, manovre intessute di fariseismo, accordi di potere disegnati da chi usa la politica per fini personali, con strategie senza respiro. La voce della città, sia pure in modo cauto e timido, sta scandendo questa consapevolezza. Per renderla più forte occorre che essa diventi un urlo collettivo liberatorio, pregno di saggezza, di responsabilità. Il prossimo voto ci dice che questa è l’ora.

di Gianni Festa