Le Foibe, il fascismo e l’uso pubblico della storia

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1) Intorno al 10 febbraio, “Giorno del Ricordo”, soffia un’aria di regime, nel segno del pensiero unico e della censura delle opinioni non allineate.
Dal 2004, anno dell’approvazione della legge istitutiva della ricorrenza, con il solo voto contrario dei due partiti comunisti allora presenti in Parlamento, PRC e PdCI, ogni anno segna un passo in avanti verso l’imposizione, ope legis, di una dottrina di Stato. Ciò anche a grazie a quello che allora si configuro’ come un grave cedimento del centro-sinistra (in particolare dei Democratici di Sinistra, in pieno disarmo ideologico), ispirato dalla formula di stampo revisionista della “memoria condivisa”.
La peculiarità, tutta italiana, di questo ventennale percorso, è che la verità propagata attraverso il Giorno del Ricordo
è quella scaturita dalla cinquantennale narrazione dell’estrema destra, la quale a sua volta raccoglie il testimone direttamente dall’armamentario propagandistico di Salò. Il pensiero va a questo proposito a formule come “furia sanguinaria slava” , al concetto di “pulizia etnica”, così come all’ossessiva riproposizione del mito del “buon italiano”.
Ricordare queste cose non significa negare il fatto storico delle foibe, nei due momenti del dopo 8 settembre 1943 e del maggio 1945. Fatto storico che va però riportato alle sue reali dimensioni, e non dilatato in maniera abnorme, come, soprattutto negli ultimi anni, ha fatto la destra alla ricerca di improbabili rivalse storiche o in funzione di interessi politici contingenti; fatto storico che va inoltre contestualizzato, non in senso generico (ogni evento storico avviene, ovviamente, in un certo contesto), ma specifico, e considerato pertanto, in primo luogo, nella sua natura di fenomeno reattivo, come risposta a un’opera ventennale di assimilazione violenta e persecutoria da parte del regime fascista nei confronti delle minoranze slave, sfociata nel proditorio attacco alla Jugoslavia dell’aprile 1941, con il suo corollario di fucilazioni sommarie, incendi di villaggi, devastazioni materiali e morali dalle proporzioni non inferiori in molti casi a quelle provocate dall’alleato nazista, compresa la presenza dei campi di concentramento, come quelli di Arbe, Molat e Gonars.
Ciò non rappresenta certo, vogliamo sottolinearlo, una giustificazione per le vendette e le forme di giustizia sommaria che pure ci sono state, da parte jugoslava, in risposta alle violenze sopra richiamate.
Significa invece ricordare che prima delle foibe “italiane” vi sono quelle riservate agli slavi, anzi, come ha scritto Giacomo Scotti, che “il brevetto degli infoibamenti spetta ai fascisti e risale agli inizi degli anni ’20 del XX secolo” (“Le foibe fasciste che nessuno ricorda”, in “La guerra è orrore. Le foibe tra fascismo, guerra e Resistenza”, pp. 59-75); che riguardo alle vittime in Istria del periodo successivo all’Armistizio “quasi tutti gli storici concordano, ragionevolmente, su una cifra di 400-500 vittime in totale” (E. Gobetti, ” E allora le foibe? “, p. 76); che le vittime delle foibe del 1945 sono ricomprese tra le 4000 e le 5000 unità ( “Vademecum per il Giorno del Ricordo”, Istituto Nazionale per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, 2019, p.35); che l’esodo post-bellico verso l’Italia fu preceduto dall’esodo dall’Istria di circa 60.000 persone in fuga dalla guerra scatenata dall’Italia e dalla Germania.2) Le vicende dell’ex confine orientale hanno sempre esercitato un’attrazione particolare nei confronti del mondo del neofascismo nel dopoguerra, anche delle sue frange più estreme. Vi è ad esempio il caso
di Ordine Nuovo e di una vicenda ormai quasi del tutto dimenticata eppure significativa.
La sequenza di attentati perpetrata da questa organizzazione nel 1969, che culminera’ nella strage di piazza Fontana del 12 dicembre, colpisce anche il Nord-est della penisola. Tali attentati non causano vittime solo grazie a circostanze fortuite: nella notte fra il 3 e il 4 ottobre un ordigno esplosivo viene collocato a Gorizia, presso il cippo del confine italo-jugoslavo, un altro a Trieste nei pressi di una scuola slovena. Il volantino di rivendicazione del secondo di essi, firmato da un fantomatico “Fronte anti slavo”, recita emblematicamente “No alle foibe”, “No al viaggio di Saragat in Jugoslavia”.
L’obiettivo del movimento fondato da Pino Rauti, che proprio nel settembre del ’69 rientra ufficialmente nel MSI, non è, ovviamente, quello di suscitare improbabili sollevazioni antijugoslave nelle zone di confine, ma inasprire i rapporti tra i due Paesi vicini, impegnati nella faticosa ricerca di un “ubi consistam”, e colpire così indirettamente il PCI, di recente riavvicinatosi a Tito.
3) Ma naturalmente quando si parla di neofascismo il pensiero va al MSI, che lo rappresenta in Parlamento per l’intera durata della cosiddetta “Prima Repubblica”.
Il Movimento Sociale, che fa propria integralmente la slavofobia del regime mussoliniano, coltivanostalgie revansciste fino all’estremo limite della propria parabola politica, negli anni Novanta. Nel 1991, allorquando è ormai in fase avanzata il processo di decomposizione della Jugoslavia e imperversa la guerra civile, una delegazione del partito viene ricevuta a Belgrado da alcuni esponenti del governo Milosevic. All’ordine del giorno figura addirittura la possibile spartizione della Croazia tra Italia e Serbia. Al suo ritorno Fini relaziona al presidente della Repubblica Cossiga in merito all’esito della sua missione.
Il rapido precipitare degli eventi, con il riconoscimento della Croazia da parte della Repubblica Federale Tedesca e del Vaticano, induce però il governo italiano a schierarsi con la Croazia. Tuttavia l’attivismo dell’estrema destra non viene meno. Di fronte all’ipotesi che truppe in ritirata dell’esercito jugoslavo possano rientrare via mare in Montenegro imbarcandosi a Trieste, il Movimento Sociale indice per il 6 ottobre una manifestazione nel capoluogo friulano, conclusa con un comizio di Fini e caratterizzata da toni di acceso nazionalismo, con annessa richiesta di revisione dei confini e “restituzione all’Italia di Istria e Dalmazia”. Il fallimento di questo progetto non fa desistere i “patrioti” dal coltivare i loro sogni di gloria. Così l’anno successivo, l’8 novembre, Fini e i suoi, muovendo in barca sempre da Trieste, lanciano nell’ Adriatico delle bottigliette tricolori contenenti il seguente messaggio : “Istria, Fiume, Dalmazia: Italia! Un ingiusto confine separa l’Italia dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia, terre romane, venete, italiche. La Jugoslavia muore dilaniata dalla guerra: gli ingiusti trattati di pace del 1947 e di Osimo del 1975 non valgono più. È anche il nostro giuramento: “Istria, Fiume, Dalmazia : RITORNEREMO!”.
4) Mimetizzata nei primi anni del nuovo secolo nel grande contenitore del cosiddetto Popolo della Libertà, al momento della dissoluzione di quest’ultimo, quest’area politica riacquistera’ una presenza autonoma rinvenendo nel progetto di revisionismo storico (di cui l’operazione foibe rappresenta la punta avanzata) uno strumento per enfatizzare i propri tratti identitari e un formidabile propellente ideologico. Nel 2017 il secondo congresso nazionale di Fratelli d’Italia (in realtà il vero congresso di fondazione) si tiene, non casualmente, a Trieste, da dove viene lanciato un ponte ideale verso il fascismo storico, che sulle vicende del primo conflitto mondiale e delle ex “terre irredente”, aveva costruito il proprio mito di fondazione. Se viene abbandonato, per evidente anacronismo, il linguaggio revanscista che aveva caratterizzato il vecchio MSI e in parte anche Alleanza Nazionale, trionfano la retorica patriottarda e il lessico neonazionalista, lo stesso a cui attingono oggi a piene mani la premier e i suoi seguaci. A Trieste, “città italiana per eccellenza” (quella scelta da Mussolini per preannunciare, nel 1938, l’introduzione delle leggi razziali), viene dedicata l’apertura delle tesi congressuali: “Cento anni fa Trieste non era una città italiana. Le armate austro-ungariche e tedesche dilagavan nella
pianura dopo la disfatta di Caporetto (….) Si può dire che il vero battesimo dell’Italia sia stato celebrato in quei momenti (…) I primi partigiani italiani furono gli istriano-dalmati, i giuliani e i friulani rimasti nelle retrovie a sabotare le posizioni degli occupanti stranieri (…) Trieste rischio’ nuovamente dopo la seconda guerra mondiale di essere strappata dall’Italia, e nuovamente lotto’ con grande sacrificio per tornare. Questa esperienza, unita alla convivenza con la brutale Cortina di ferro che segnò per quasi mezzo secolo la divisione tra l’Europa libera e quella sovietica, fa di Trieste la più italiana tra le città, ed è proprio da qui che Fd’I vuole lanciare il suo appello ai patrioti…. “.
Con il passare degli anni, quella del 2004 va configurandosi sempre più come una notevole operazione di egemonia culturale (intendendosi, gramscianamente, per egemonia la capacità di una parte politica di imporre la propria visione ideologica alla parte avversaria) ed il messaggio in essa contenuto si insinua, sorprendentemente, nei più alti livelli istituzionali. Il 10 febbraio 2007 un discorso del presidente Napolitano, che fa propria in alcuni passaggi la retorica vittimistica e recriminatoria della destra più sciovinistica (i fiumani e i dalmati italiani vengono presentati come vittime di “un moto di odio e di furia sanguinaria e di un disegno annessionistico che prevalse nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i contorni sinistri di una pulizia etnica”),
provoca una crisi diplomatica con la Croazia, il cui presidente, Stipe Mesic, si dice “costernato” per le parole di Napolitano, nelle quali, afferma, è impossibile non ravvisare “elementi di aperto razzismo, di revisionismo storico e revanscismo politico”.
La vicinanza temporale fra Giornata della Memoria (27 gennaio), e Giorno del Ricordo ( 10 febbraio) ha contribuito a fare del secondo quasi un contraltare della prima. La differenza incommensurabile tra Shoah e Foibe viene sovente azzerata , e l’ immaginario dell’opinione pubblica intossicato da fiction quali “Il cuore nel pozzo”, del 2005, e “Rosso Istria”, del 2019 (mentre toni meno virulenti caratterizzano il recentissimo film “La rosa dell’Istria”, dedicato all’esodo, in cui comunque le malefatte dei nazifascisti scompaiono nel nulla) dove, in uno straniante capovolgimento dei ruoli storici, i fascisti appaiono come le vittime, mentre i partigiani jugoslavi “sono bestie assetate di sangue, animate da un sadismo innato: non hanno niente di umano, non c’è alcuna logica nel loro comportamento, solo un istinto primordiale che li porta alla violenza” (E. Gobetti). È questa la cornice che rende possibili accostamenti inaccettabili (“Le foibe sono la Shoah italiana”), cari all’attuale presidente del Senato e fino a qualche anno fa inconcepibili.
Il rovesciamento dei fatti e delle evidenze storiografiche è ormai compiuto, tanto che la storiografia critica viene bollata disinvoltamente, e spregiativamente, come “revisionista” e si equiparano le foibe alla Shoah, come ha fatto Fd’I, con la proposta di modificare l’art 604-bis del codice penale, che attualmente punisce la “propaganda, l’istigazione e l’incitamento alle discriminazioni fondate sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra”, aggiungendovi la fattispecie dei “massacri delle foibe”.
È dei giorni scorsi la notizia della prossima realizzazione di un Museo delle Foibe voluto dal governo Meloni, con un disegno di legge che riprende alla lettera la legge istitutiva del Giorno del Ricordo e che lascia presagire pertanto una nuova rottura e una ulteriore “escalation” revisionista destinata, in assenza di una controffensiva all’altezza della sfida, ad imporre il proprio dominio nel lungo periodo fino a stravolgere l’identità culturale della Repubblica sorta dalla Resistenza.

Luigi Caputo
Partito della Rifondazione Comunista
Federazione Provinciale di Avellino