Meno petrolio, più energia pulita

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Fra dieci giorni saremo chiamati a votare per il referendum anti-trivelle. Un quesito molto specifico. I cittadini italiani dovranno decidere se le imprese che già oggi operano entro le dodici miglia possano continuare ad estrarre gas e petrolio dai giacimenti esistenti fino al loro naturale esaurimento. Dunque nessuna indicazione su quali e quante perforazioni saranno permesse nei nostri mari, perché su questo esiste già una normativa tra le più rigorose del mondo. Attualmente, le concessioni per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi in mare sono in tutto 69. Solo 35 di queste si trovano entro le 12 miglia. C’è poi l’estrazione di petrolio a terra che si concentra soprattutto in Sicilia e in Basilicata nella Val d’Agri oggetto delle inchieste della magistratura con le conseguenti dimissioni del ministro dello sviluppo economico Federica Guidi e la difesa del progetto Tempa Rossa fatto dal Presidente del Consiglio Renzi convinto che solo sbloccando le opere si sblocca il paese. L’inchiesta amplifica uno scontro che era già alto ed è ovviamente politico. E’ la prima volta che un referendum abrogativo è promosso dalle Regioni. Sono nove i consigli regionali sia di destra che di sinistra che hanno usato l’arma referendaria contro una legge voluta dal governo. Uno scontro dunque innanzitutto tra poteri. Nel merito il comitato promotore del referendum sostiene che per la scansione dei fondali viene utilizzato l’air gun (cioè una tecnica di ispezione dei fondali marini) che danneggia pesantemente l’ambiente. Ci guadagnano solo le compagnie petrolifere e il greggio individuato è insufficiente per il fabbisogno italiano. Le riserve equivalgono a 6-7 settimane di consumi di petrolio e 6 mesi di gas. Quelli del no spiegano invece che fermare le estrazioni significherebbe perdere investimenti e posti di lavoro. Il rischio di incidenti nel settore è molto basso: solo 3 negli ultimi 65 anni. Comunque vada il referendum, la disponibilità di fonti energetiche è fondamentale per il progresso del Paese e per il benessere della comunità. E su quest’ultimo punto c’è sicuramente da riflettere su un significato ulteriore che va oltre il pur importante quesito referendario. Bisogna infatti interrogarsi su cosa vuole fare l’Italia per il futuro, quale scelta di fondo intende compiere. In altri termini se cioè noi italiani vogliamo continuare ad essere un paese industrializzato, salvaguardo naturalmente l’ambiente, oppure se invece abbiamo in mente uno sviluppo di tipo diverso che un giornalista come Corrado Augias un po’ ironicamente definisce irenico. Un paese con oliveti, mulini che girano, turisti che fotografano i monumenti nelle nostre città d’arte. L‘industria è dura mentre l’altro modello si può adottare ma a patto di farlo integralmente dismettendo una serie di attività. Insomma ci troviamo di fronte ad una scelta che investe il nostro sistema paese e in particolare come mette in evidenza il costituzionalista Michele Ainis “il progetto stesso di una politica ambientale, lungimirante, coerente, complessiva, dove ci sia anche spazio per le energie rinnovabili. In Italia coprono il 17 per cento dei consumi; in Norvegia, Islanda, Svezia oltre la metà”. Il problema insomma è più ampio e non si può risolvere contestando l’esistenza della questione. Secondo l’ex presidente del consiglio Romano Prodi il governo dovrebbe impegnarsi a dedicare tutte le risorse che arriveranno dalla continuazione dei proventi derivanti dagli attuali giacimenti per incentivare la ricerca, la produzione e la conservazione delle energie rinnovabili. Un modo per importare meno petrolio e meno gas dedicando maggiori risorse alle energie pulite ed entrando finalmente nel gruppo dei paesi che innovano e producono in questo settore. Forse non è l’unica soluzione ma certamente è una via percorribile visto che finora tutte le altre sono strade senza uscita.
edito dal Quotidiano del Sud