Napoli, città violenta

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Nemmeno il coronavirus, con il rallentamento di tutte le attività economiche, è riuscito a frenare la criminalità delle baby gang dei giovanissimi di Napoli e delle sue periferie. Napoli è una città bellissima ma anche difficilissima. Il quindicenne ucciso da un carabiniere in borghese, al quale tentava di rubare il rolex, e la violenza dei suoi familiari che hanno devastato il Pronto soccorso dell’Ospedale “I Pellegrini”, le sparatorie sulle caserme, gli episodi di bullismo nelle scuole, lo spadroneggiare nei vicoli e nelle strade del centro, a bordo di potenti moto, sono episodi che raffigurano una città violenta, come mai lo è stata nella sua storia. La violenza si è aggiunta alla povertà ed alla emarginazione, trasformando la rassegnazione e l’acquiescenza del popolo dei vicoli e delle periferie in protesta e ribellione. “E’ dove non c’è lavoro, dove non ci sono opportunità, dove c’è dispersione scolastica, dove andare a scuola e istruirsi è considerato un lusso, o una perdita di tempo, dove non ci sono risorse per riportare a scuola i minorenni che decidono di abbandonare gli studi senza altra prospettiva, senza alcuna alternativa alla strada, proprio lì c’è GOMORRA” (Saviane, Repubblica 4.3.20). Che aggiunge: ” Napoli è una città che ama guardarsi in uno specchio deformato per vedersi normale.” Come la bambina “cecata” de “Il mare non bagna Napoli” di Anna Maria Ortese per la quale il reale è intollerabile e solo mettendosi gli occhiali (che non poteva permettersi) riesce a vedere il suo mondo di bambina. Il dolore della scrittrice vince l’amore per la città e accresce il suo senso di spaesamento. Era la città devastata della guerra, nelle case e negli animi; quella dei vicoli del “Ventre di Napoli, della “peste”, del 1943 descritta da Malaparte, nella “Pelle” nelle cui pagine, bellissime e roventi, l’autore denuncia il disgusto per la devastazione e la miseria ma anche il compiacimento per una umanità dolente e rassegnata dove “null’altro rimane se non la lotta per salvare la pelle: non l’anima, come un tempo, o l’onore, la libertà, la giustizia, ma la schifosa pelle”. Era la Napoli della povertà ma anche della bontà e dell’arte di vivere descritta da Marotta nell’Oro di Napoli che la globalizzazione e il Miracolo economico non hanno neanche sfiorata. E’ rimasta povera ed emarginata e con la venuta dei cinesi ha visto sfumare anche l’economia del vicolo, famosa nel mondo per la maestria dei suoi artigiani. Una Napoli di una antichissima civiltà che risale ai tempi dei Greci e che la dominazione spagnola, prima, quella dei francesi dopo e in seguito dei Savoia hanno ridotto alla povertà e alla emarginazione e che una classe politica, imbelle, clientelare, spesso in affari con la stessa Camorra, seguita al Laurismo delle “Le mani sulla Città”, ha fatto aumentare il decadimento e il disastro. Una classe politica e dirigente che ha permesso che per oltre venti anni la regione fosse letteralmente sommersa da rifiuti tossici e speciali ad opera di una Camorra divenuta spietata e feroce dopo la scoperta della droga, e il business dei rifiuti che hanno irreversibilmente inquinato estesi territori tra Napoli e  Caserta e distrutto uno dei litorali più belli della regione, quello flegreo, nel quale un intero villaggio è stato costruito abusivamente e le cui strade sono campo di battaglia di prostitute e della delinquenza nigeriana e dove migliaia di tonnellate di rifiuti, avvolti nel cellofan gridano vendetta. A distanza di quarant’anni di continue emergenze non sono state ancora realizzaate strutture sufficienti per la trasformazione e il riciclo della “munnezza”.

Come non farsi prendere dallo sconforto, sentimento che prese anche il più napoletano di tutti i tempi, il grande Eduardo, che si lasciò sfuggire la celebre frase: “Fuitevenne!”, ripresa nel 1990 dal parroco di una Chiesa di via dei Tribunali, don Franco Ripullino che, nell’omelia per il rito funebre di un bambino di due anni ucciso dalla camorra, gridò dal pulpito: “Fuitevenne ‘a Napule”.

di Nino Lanzetta